La costruzione del libro Addio, mia bella addio: battaglie ed eroi (sconfitti) del Risorgimento è stata, per chi scrive, una grande occasione per ripercorrere le tappe dell’Unità d’Italia e per cercare di comprendere meglio questo nostro strano paese: nell’augurio che questa riscoperta valga anche per coloro che leggeranno il libro. Sia permesso dare un suggerimento a coloro che amano la Storia: prendere uno o più libri a propria disposizione su un determinato argomento, quale il farsi dell’Unità d’Italia, e ripercorrerlo giorno per giorno, senza fretta, rivivendo i tempi della Storia. Si tratta di provare a guardare la Storia “dal basso”, dalla parte del fante che marcia con lentezza e fatica, da una città all’altra, anziché condensare la lettura in pochi giorni. Chi farà questa esperienza potrà avere delle sorprese.
Si prenda la spedizione dei Mille di Garibaldi della quale, in questi giorni, ricorre il 160esimo anniversario. Sappiamo tutti molto bene come si sia passati da una narrazione quasi miracolistica di tale impresa, con mille eroi in camicia rossa che conquistano mezza Italia (dimenticando che i volontari affluiti dal Regno di Sardegna furono più di 20mila in diverse spedizioni e che l’apporto delle popolazioni meridionali fu minoritario, specie nel continente) a una narrazione fatta di congiure massoniche, di corruzione, di tradimenti che fanno passare in second’ordine le capacità militari di Giuseppe Garibaldi e dei suoi. In ambedue i casi, chi aderisce a queste opposte letture dimostra innanzitutto un desiderio inestirpabile di non studiare a fondo una vicenda così complessa. Ci si accontenta del mito, positivo o negativo, senza scendere sul terreno dei fatti. E la riprova è nella storia della conquista di Palermo, come si cercherà di descriverla nella pagine che seguiranno: con qualche istruttiva lezione per il presente.
Una premessa importante che di rado viene presa in considerazione: il terrore che i soldati napoletani avevano dei siciliani. L’insurrezione dell’isola nel 1848 aveva comportato uno sforzo militare notevole del regno borbonico per la sua riconquista. Le battaglie di Catania e, soprattutto di Messina, erano state estremamente sanguinose e all’insegna della spietatezza più efferata, dall’una e dall’altra parte. Bombardamenti delle città, massacri di civili, soldati fatti prigionieri e sgozzati dal primo all’ultimo: i borbonici temevano i siciliani e sapevano che erano nemici duri e feroci.
Per questo motivo la sconfitta subita a Calatafimi il 15 maggio 1860 dal generale Francesco Landi non deve sorprendere. A parte il fatto che i garibaldini avevano subito quasi il 20 per cento delle perdite, indice di una lotta feroce, come riconosce lo stesso ex zuavo pontificio Patrick Keyes O’Clery in quel capolavoro che è La rivoluzione italiana, la mossa geniale di Garibaldi fu quella di inviare i picciotti siciliani, di scarso valore bellico, alle ali dei reparti borbonici. Bastò questa mossa a persuadere Landi ad intraprendere una ritirata che si tramutò in un mezzo disastro. Prima di arrivare a Palermo, la colonna napoletana, che aveva quasi esaurito le munizioni, fu attaccata dagli abitanti di Partinico e subì numerose perdite. I napoletani, dal canto loro, ebbero il sopravvento e bruciarono il paese: questo tanto per dire che brutta aria tirasse per i “continentali”.
Proprio il 17 maggio il comandante in capo delle forze borboniche, il principe di Castelcicala, 71 anni, reduce di Waterloo, veniva sostituito dal generale Ferdinando Lanza che di anni ne aveva settantatré. E qui si vede uno dei difetti principali degli Stati in crisi: non riuscendo a rinnovarsi, si affidano alla tradizione e instaurano una gerontocrazia che dà l’illusione della sicurezza. Va detto, per inciso, che chi legga Addio, mia bella addio troverà gli stessi difetti dei generali borbonici nei generali sabaudi della prima (1848) e terza (1866) guerra di indipendenza: cortigiani, timorosi di responsabilità, pigri e ignoranti, maggiordomi gallonati che, se pur possono mostrare coraggio fisico, mancano del coraggio morale di operare assumendosi il rischio di sbagliare e di perdere il favore del sovrano.
Garibaldi, dal canto suo, sapeva bene che la sua situazione era disperata. Contava poco aver vinto a Calatafimi. A Palermo vi erano 20mila uomini e dalla piazzaforte partivano colonne di soldati ben armati e addestrati che sgominavano le forze ribelli che stavano intorno alla città. Garibaldi dispone di circa 800 garibaldini e di qualche migliaio di picciotti male armati. Il 19 è al passo di Renda, in vista di Palermo, poi punta verso Monreale per collegarsi alle bande di Rosalino Pilo, capo guerriglia siciliano che aveva mantenuto viva la rivolta in attesa dei Mille.
Il 21 maggio, 5mila borbonici, guidati dal colonnello svizzero Julius von Mechel e dal maggiore Ferdinando Beneventano del Bosco attaccano le bande di Pilo e le distruggono completamente. Pilo resta ucciso nello scontro. Garibaldi si ritira da Monreale e, in una massacrante marcia notturna sotto la pioggia, si dirige verso Parco (oggi Altofonte) prendendo posizione sul Cozzo di Crasto.
La postazione difensiva è ottima ma von Mechel e Bosco (gli unici comandanti borbonici dotati dei giusti attributi) non cascano nella trappola e tentano di aggirare i garibaldini. Garibaldi, sempre molto attento, si avvede della manovra e, il 24, impone una nuova marcia forzata verso Piana dei Greci, oggi Piana degli Albanesi. Prima di partire lascia accesi numerosi fuochi di bivacco, per ingannare il nemico circa le sue manovre: un trucco che i lettori di Tex Willer conoscono molto bene ma che fa parte (anche questo) della nostra storia patria.
Tra i garibaldini inizia a farsi strada la sfiducia: se i ribelli saranno respinti verso l’interno dell’isola, prima o poi saranno sconfitti. Anche i borbonici sono stanchi e si fermano fino al 25 maggio, dando tempo ai garibaldini di rifiatare. Ma è a quel punto che Garibaldi attua una manovra degna più di un capo sioux oglala che di un generale europeo. La sera del 24 maggio la colonna garibaldina lascia Piana dei Greci e si dirige verso sud ma, dopo pochi chilometri, il grosso svolta a sinistra a Santa Cristina mentre i carri con i feriti e i pochi cannoni, comandati da Vincenzo Orsini, proseguono verso il bosco della Ficuzza. Garibaldi, con 750 camicie rosse e duemila siciliani, punta verso Marineo dove arriva la mattina del 25 maggio e la sera è a Misilmeri.
Garibaldi ha seminato i suoi inseguitori con una marcia velocissima, replicando la manovra compiuta tra Induno Olona e Gavirate quando, nel 1848, aveva beffato anche gli austriaci, ben più determinati dei napoletani. Le colonne di Bosco e von Mechel riprendono la marcia e arrivano a Piana dei Greci, dove sono informati della ritirata garibaldina. L’inseguimento prosegue, con lentezza e metodo, e le forze borboniche raggiungo la colonna di Orsini a Corleone il 27 maggio, ingaggiando un prolungato combattimento che si conclude con una nuova ritirata degli insorti verso Sambuca. Un fatto che fornisce la prova che quella di Orsini sia la colonna principale e non un diversivo.
Von Mechel e Bosco non sanno che, all’alba del 26 maggio, Garibaldi ha deciso di osare il tutto per tutto e di entrare in Palermo, riunendosi a ciò che resta delle bande di Pilo, ora guidate dal Corrao e con un aiuto insperato: l’ungherese Nandor Eber, corrispondente del Time, raggiunge i garibaldini e li informa della disposizione delle forze regie in città. Queste gravitano soprattutto nella zona di Monreale, da dove era venuto il primo attacco degli insorti e di Parco. Quasi indifeso è il lato sudest, coi suoi quartieri popolari dove è possibile combattere casa per casa e annullare il vantaggio numerico borbonico.
Non solo. Se Garibaldi riuscisse a entrare in città e arrivare a Fieravecchia si troverebbe, per così dire, al centro del ring, e sarebbe l’occasione per i palermitani di insorgere. Ma si tratta di 160mila cittadini disarmati contro 18mila soldati, appoggiati dal forte di Castellammare con le sue artiglierie, oltre che dalla flotta da guerra.
La sera del 26 i garibaldini, dopo aver lasciato accesi i soliti fuochi da bivacco, puntano decisamente verso Palermo. La marcia è ordinata e rapida. A mezzanotte sono nella pianura, all’alba sono a un punto di riunione con i picciotti e qui succede un mezzo disastro. I siciliani, entusiasti quanto poco professionali lanciano grida di entusiasmo, sparano in aria, fanno un baccano del diavolo che sveglia la guarnigione borbonica a difesa del ponte dell’Ammiraglio, due battaglioni di cacciatori, ben decisi a battersi perché sanno bene di non potersi aspettare pietà dai ribelli.
In testa vi sono 50 carabinieri genovesi con le loro carabine rigate svizzere: tiratori micidiali, rappresentano la guardia scelta di Garibaldi. Sono seguiti da 3mila picciotti e, in retroguardia, dai garibaldini, esausti per la fatica di quei giorni, ma più che mai determinati a battersi perché non c’è altra speranza di sopravvivenza che nella vittoria totale. La prima scarica dei cacciatori borbonici semina la morte tra le file ribelli. È il momento della verità. Da come reagiranno gli attaccanti dipenderà l’esito della lotta. Lo vedremo nella prossima puntata.
(1 – continua)