L’idea che i classici possano essere “il frumento, il nostro pane quotidiano”, così come leggiamo nel nuovo libro di Alessandro Rivali, Ritorno ai classici. Una conversazione con Giampiero Neri (Ares edizioni, 2020), mi sembra da sottoscrivere a occhi chiusi. Ma quando un libro è un “classico”? Questione di canone, dunque. Letterario, naturalmente. Una vexata quaestio sulla quale sono scorsi i paradigmatici, e retorici, fiumi d’inchiostro, sin da quando quest’ultimo ancora non c’era: Callimaco con i suoi pinakes e i filologi e grammatici cercarono un criterio per definire uno standard di eccellenza che qualche secolo più tardi Aulo Gellio nelle sue Notti attiche avrebbe definito col fortunato e longevo termine di “classico”.
Poi la rincorsa al binomio classico-canone è stata un leit-motiv: Dante nel suo Inferno mette in bocca a Virgilio i suoi riferimenti imprescindibili (“Mira colui con quella spada in mano,/ che vien dinanzi ai tre sì come sire:/ quelli è Omero poeta sovrano;/ l’altro è Orazio satiro che vene;/ Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano”) da collocare accanto allo stesso Virgilio.
Ma l’idea di catalogare e canonizzare ha accompagnato anche molti degli snodi più delicati politico-sociali che hanno originato alcune storie letterarie (Tiraboschi, Salinari e Flora, a mo’ d’esempio dal mazzo) e ancor più le famose e famigerate antologie poetiche, talvolta album da scorrere solo per il chissà chi non c’è.
Per tutti, per chiunque si incammini con il suo lanternino per questa strada possono essere di buona scorta nello zaino le otto definizioni che di “canone” dà il Grande Dizionario della Lingua Italiana, la prima delle quali colloca il termine all’area semantica di “regola fondamentale, norma esemplare”.
Al termine degli anni Settanta, grosso modo in coincidenza con l’appannamento del grande sistema ideologico-culturale dell’ortodossia marxista, si sono cominciati a ricercare rinnovati canoni e cataloghi in modo sempre più frammentario. Non mancano acute riflessioni a proposito, su tutti penso agli studi di Harold Bloom, ma, diciamocelo, si sono cominciati ad avere sistematizzazioni sempre più svincolate da gruppi d’appartenenza. Giusto così? Non ho un mio canone a riguardo, penso sia lo stato dell’arte.
In questa temperie, allora, ben s’inquadra questo libro-dialogo tra Rivali e Neri che, principiando proprio da Omero (e da chi sennò?), fa emergere un altro assunto a mio avviso fondamentale: classico è quell’opera in grado ancora di fornire a tutti noi chiavi interpretative del mondo e dell’Essere o, come dice Neri, “un testo che non ha tempo, un testo che può essere letto in ogni tempo”. I due s’incamminano nel loro itinerario, incontrano autori del calibro del succitato Dante, “con la forza della fedeltà al concreto della Commedia” e il Manzoni riconosciuto come un “Fra Cristoforo” della letteratura con i suoi Promessi sposi e poi via via ai giorni nostri, tra Pasternak e Fenoglio, Pavese e Celine. Quello che piacevolmente sorprende nel seguire il botta e risposta tra Rivali e Neri è il tenore lieve ma non ordinario del conversare che, pur seguendo nel suo schema il precedente libro-intervista Giampiero Neri. Un maestro in ombra (2010), vive del costante confronto dialettico (e oggi quasi paritetico), nella generosa prosa di Alessandro Rivali e nella pungente incisività della parola di Giampiero Neri, lasciando emergere senza alcuna retorica le rispettive idee di canone (e il conseguente catalogo) in parte collimante e in parte no.
Nota a margine (ma neppure tanto): a campire il libro una Introduzione di Alessandro Rivali, un racconto mosso e leggero sull’iniziazione alla lettura e alla letteratura del poeta giovane, denso di sorprese (divertente, alla latina, l’aneddoto dell’incubo del regalo-libro); e un’Appendice di prose inedite di Neri che lo confermano un maestro, in ombra o meno che sia, della prosa lirica.