Lo chiamavano Rouge, storpiando con eleganza il cognome, o alla sudamericana, Mingus. Don Domenico Rosso, torinese, salesiano di testa e di cuore, è un pezzo di storia della comunicazione che se ne va, un pezzo della comunicazione cattolica, che è stata pioniera, per l’apertura di orizzonti, l’originalità delle proposte, la fermezza e l’audacia di non vergognarsi di Gesù Cristo, quando veniva via via allontanato dai media.
Don Rosso, rettore della seconda casa madre salesiana dopo il Valdocco, Colle don Bosco, è stato dal 1979 direttore di Radio Incontri, poi Radio Proposta, subito identificata con la radio della diocesi di Torino, anche se nasceva dalla fantasia dei salesiani, e la sua location era una torretta di uno dei suoi centri più vivaci nella periferia torinese, Rebaudengo. Dalle finestrelle appollaiate si vedevano i ragazzini giocare a pallone nel cortile e le signore col velo entrare in chiesa per le funzioni.
Don Domenico, occhialetto sul naso, sorriso sornione, era un maestro, di vita e di giornalismo: intelligente, capace, acchiappò da subito l’opportunità della libera radiofonia per lanciare un gruppo di ragazzi nell’etere, armati solo di registratori a batterie e passione, oltre a quella faccia tosta – chiamiamola baldanza giovanile – che permetteva di incontrare e chiamare ai microfoni le personalità più importanti del mondo della politica, della cultura. Nessuna improvvisazione ingenua: gli studi della radio erano insonorizzati, attrezzati al meglio con la tecnologia più moderna, e i giovani cooptati non proprio degli sprovveduti: in quelle stanze si è formata una generazione di giornalisti, che oggi lavorano nelle più diverse testate.
Lo scopo era netto, come sempre con i figli di don Bosco: “Promuovere la conoscenza, l’incontro e la circolazione di idee e di esperienze tra le realtà giovanili cattoliche, per la realizzazione di una proposta cristiana della vita”. Questo si traduceva nel cercare e dare notizie, con un punto di vista cristiano, sì, ma mai bigotto, mai nascondendo, mai annacquando, mai trasformando la fede in ideologia, o facendone una bandiera identitaria per rivendicazioni che, anche allora, avrebbero avuto qualche motivo: eravamo isolati e sbeffeggiati nelle università, il Movimento e le sue propaggini che già avevano segnato con la violenza la vita sociale e politica non vedevano di buon occhio ragazzi che volevano cambiare il mondo, sì, ma con la passione e la voglia di pace, di incontro.
In quegli studi il radiogiornale e lo sport, tanta musica e intrattenimento mai banale, mai alla rincorsa compiacente della moda. E ciascuno imparava e trovava la sua strada, dai giornali alla televisione, dalle agenzie alla vita di convento. La genialità di una truppa tra i 18 e i 30 anni al massimo era la sua composizione, oculatamente scelta in modo da riunire tutte le anime della Chiesa, che spesso si guardavano in cagnesco: chi veniva dalle Acli e chi da Cl, chi dalla sua parrocchia e chi dai Focolarini.
Abbiamo imparato che la Chiesa è una, è grande, ha mille volti e tanti carismi, e tutti concorrono al bene, alla libertà di giudizio, all’amicizia più vera, per cui dopo il lavoro non si smetteva mai di pensare al giorno dopo e di suonare la chitarra, di preparare un sugo per gli spaghetti o parlare di quel che più conta, le grandi domande che a vent’anni tieni ancora deste, e poi ti stanchi di far tumultuare.
Ci vuole sempre un maestro, e questo prete minuto è stato attento e partecipe, mai invadente, mai imponente. Lasciava creare, lasciava crescere, vigilando e accudendo, le idee e la preghiera, qualche ritiro. Accogliendo, con discrezione e tenerezza, qualche persona fragile che tra le mura di quella radio ha trovato la forza di vivere e una vocazione, professionale e umana.
Quando te ne vai a 87 anni, e hai vissuto così, ti ricordano gli amici più cari. Invece la storia delle radio e delle televisioni cattoliche in Italia, il loro ruolo, la loro forma, meriterebbe memoria più attenta e ispirazione per il presente. Meriterebbe un grazie, per una presenza che si è attrezzata ai cambiamenti del tempo, senza mai essere succube o troppo timida, senza presunzione, ma con la certezza di un incontro, appunto, che può dare significato a tutta la vita.