Con buona pace di tutti, in Italia la scuola, nonostante proclami e pagine dei media, resta una questione di minor valore rispetto agli altri settori sociali. Ora tutti i settori sono entrati nelle decisioni governative per la ripresa della vita sociale ed economica del paese, compresi i barbieri. Certo, anche questi saranno indispensabili, ma le scelte sulla scuola arrivano buone ultime, in mezzo a contrasti e trovate che rasentano il ridicolo e sembrano compromettere persino la ripresa di settembre.
Ovviamente non mancano i caratteri del costume pubblico nazionale: annuncio di scioperi (dopo che gli edifici scolastici sono rimasti chiusi per tre mesi), presa di distanza da parte dei sindacati dei presidi, richieste di sempre maggiori risorse pubbliche.
Ad esclusione di alcune manifestazioni di volonterosi genitori dello scorso 23 maggio a favore della riapertura delle scuole, nessuna forza politica, associativa o sociale ha ritenuto cruciale far tornare a scuola bambini o giovani, assieme alla ripresa di maggio per tutte le altre attività.
Solo la scuola resta ai margini. E non è detto che persino a settembre si riesca, viste le ultime spiritose trovate di voler piazzare milioni di pannelli in plexiglas sui banchi o infilare in testa ai bambini le visiere!
C’è da domandarsi seriamente, anche in questa tragica circostanza dell’epidemia, se i nostri figli e i nostri giovani interessino veramente alla politica e alla società. Più in generale se l’istruzione e l’educazione siano stimati beni primari.
È vero che questa trascuratezza non è da adesso: basterebbe ricordare le lacrime del ministro Letizia Moratti per far passare serie riforme in Consiglio dei ministri; oppure le recenti parole del ministro Luigi Berlinguer, uno dei più fieri lottatori per la centralità della scuola: “Ricordo bene la sensazione che avevo quando partecipavo ai Consigli dei ministri: alla politica italiana dei problemi della scuola non gliene frega molto” (Panorama, 13 maggio 2020). Ma questa impressione la si ricava anche fuori dalla politica: la politica, anche in questo, non fa che riflettere il clima e le opinioni della vita sociale.
Tranne due o tre voci isolate, nelle dichiarazioni di questi giorni a favore della riapertura delle scuole dell’infanzia e primaria, l’unica motivazione che tornava sempre si riferiva unicamente al problema della cura dei figli a casa da parte dei genitori che tornano al lavoro.
Rarissime le voci che hanno ricordato la scuola come istituzione sociale primaria, radicata non nella funzione sociale di assistere i piccoli e ragazzi per i genitori che non sono a casa, ma sul bisogno di educazione e cultura – questo sì, primario per una società seria – unica e valida radice del diritto all’istruzione e formazione.
Certo, i media talvolta riecheggiano appelli alla “scuola come presidio della nazione”, al “primato dell’educazione come relazione”, alla “scuola come socialità”. Ma il mondo sindacale, le trattative ministeriali, gli incontri istituzionali e lo stesso Consiglio superiore della pubblica istruzione ripetono incessantemente e solo i rischi, i problemi, le precauzioni, le difficoltà per una riapertura reale e invocano “regole certe e indubitabili” che non lascino spazio alle interpretazioni.
Sono le vicende di questi giorni. Dopo la pubblicazione da parte del Comitato tecnico scientifico sulle “Modalità di ripresa delle attività didattiche”, oggi scioperano i Cobas; lunedì 8 giugno (salvo revoca) scioperano la “triplice”, Snals e Gilda; pochi giorni fa il maggior sindacato presidi ha bocciato quelle indicazioni come assolutamente “inattuabili per la riapertura di buona parte delle sedi scolastiche”.
E questo mentre quasi tutti i paesi europei hanno già riaperto l’attività scolastica, dagli inizi di maggio in poi, in alcuni casi anche attraverso una decisione politica contro il parere dei sindacati.
Ai problemi strutturali che in questi decenni si sono via via aggravati e che hanno fatto della scuola sempre più un terreno di battaglia (non a caso è il settore con il maggior numero di cause giudiziarie), si è aggiunto ora lo scontro sulle condizioni di sicurezza sanitaria per la riapertura.
Nel primo gruppo di problemi il più grave resta la diffusa instabilità degli insegnanti: a settembre più di un quarto dei posti saranno precari, una cifra mai raggiunta in passato.
C’è poi, sempre a settembre, l’assenza di dirigenti scolastici titolari stabili in più di 500 istituti scolastici, dove si dovrà programmare e gestire tutto con presidi a mezzo servizio. Sempre in tema di assenze più di metà dei posti di direttore amministrativo delle scuole statali è vacante, nonostante un concorso mai terminato.
Tra i problemi, invece, derivanti dalla sicurezza sanitaria, ci sono quelli legati alla fine dell’anno scolastico: le contese sugli esami di terza media e di quinta superiore; l’assenza a tutt’oggi di 1.250 presidenti di commissioni per gli esami di maturità; la grave disattenzione ai bambini della scuola dell’infanzia.
Il Documento dei tecnici ribadisce le richieste di normali precauzioni per tutti gli ambienti, chiede la stesura di nuovi protocolli (quindi si parlerà di nuovi regolamenti a scuola?), va alla ricerca delle regole perfette, il tutto per eliminare (sic!) rischi di ogni genere.
Ma non si limita a questo. Descrive una scuola ideale tutta da trovare: nuovi quadri orari da definire per i curricoli, nuove scansioni orarie delle lezioni, reclutamento di nuovo personale (ma dove e quando?), nuovi spazi fisici, tante aule, laboratori e palestre, in istituti dove per tre mesi non si sono fatte neppure le normali pulizie. In tutto questo qualche sigla invoca per chi dirige poteri assoluti, senza “sovrapposizione di organi collegiali in materia di gestione” (sic!).
Mentre in un Parlamento sempre alla ricerca di un “responsabile” non si è ancora deciso di eliminare la responsabilità penale datoriale in materia infortunistica, introdotta da chi forse pensa che qualche medico riesca a certificare che il contagio è stato preso in aula!
Alla ricerca delle difficoltà a riaprire, i contrari hanno provato ad usare la notizia di una Francia che richiude per contagio le scuole aperte ai primi di maggio, dimenticando che solo in 70 sedi scolastiche su 40mila il governo ha fermato le lezioni, per cautela a causa di un contagio diffuso all’esterno delle scuole.
Insomma: tutti alla ricerca di tante regole dettagliate che da sole impediscano errori, evitino rischi, non creino responsabilità, dimenticando che la prima e unica vera risorsa su cui investire è proprio la responsabilità delle persone. E chi ha detto che in questo i piccoli non siano meglio degli adulti?
Pur in un quadro di ritardi, confusioni e assenza di direzione, la scuola finora se l’è cavata come sempre, con l’autonomia reale, con migliaia di presidi e insegnanti che hanno dato l’anima per seguire bimbi e ragazzi, in tutti gli orari della giornata. Nonostante questo, una lacuna obiettivamente rimarrà “per una sofferta lontananza fisica che non potrà non incidere sul percorso scolastico” (M. Recalcati); una lacuna che dovrà trovare forme per un effettivo recupero in termini istruzione, ma anche di formazione e relazione.
Cosa si poteva fare? Innanzitutto uscire dall’errore di considerare tutta l’Italia uguale, anche rispetto ai problemi della sicurezza. Se si è accettata la diversificazione tra Regioni in tanti settori, perché non si è potuto farlo anche per la scuola? La riapertura in sicurezza in zone dove la diffusione del virus era irrisoria, era assolutamente possibile.
Per il rischio reale che gli alunni si ritrovino buona parte dei docenti diversi da quelli che hanno cercato di seguirli a casa e che li hanno valutati, sindacati e associazioni non hanno giocato l’unico rimedio: il blocco della mobilità dei docenti di ruolo e la conferma per settembre degli stessi docenti attualmente in servizio con contratti annuali.
Come ha scritto A. Cenerini, forse “il prossimo anno scolastico sarà più eccezionale di quello che stiamo vivendo”; ma solo a condizione di scommettere sulla fiducia e sulla responsabilità.