Come negli Stati Uniti sono state ammainate in quasi tutte le capitali degli stati del Sud le bandiere confederate, simbolo degli stati schiavisti, adesso nel Regno Unito, dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd, è in corso qualcosa di analogo. Si tratta della distruzione di statue di importanti personaggi storici che però erano anche commercianti di schiavi. La prima statua a cadere (letteralmente, nel fiume) è stata quella di Edward Colston a Bristol, un importante commerciante di schiavi del 17esimo secolo. La statua però fu eretta nel 1895, quando lo schiavismo era terminato da parecchio, perché il personaggio in questione era stato anche benefattore che aveva costruito scuole, case di cura e ospedali. Ecco qual è il rischio. E’ nato un autentico movimento, “Rovesciare i razzisti”, che sta stilando una lista di centinaia di monumenti da abbattere. Tra questi anche Winston Churchill, che era noto per le sue idee razziste. Intanto il Consiglio comunale di Cardiff, capitale del Galles, sta sostenendo la rimozione della statua di Sir Thomas Picton, proprietario di schiavi ed ex governatore di Trinidad. Sir Thomas fu persino processato in Inghilterra per aver torturato illegalmente una ragazza di 14 anni – estremamente rara all’inizio del XIX secolo – ma dopo essere stato condannato fece appello con successo. La statua però fu eretta in quanto partecipò alla battaglia di Waterloo contro Napoleone rimanendo ucciso. Questa situazione ha spinto la popolare editorialista inglese Sarah Vine a intervenire con un articolo sul Daily Mail: “Temo per il futuro della Gran Bretagna se cancelliamo il passato buono e cattivo. La libertà di pensiero non è mai stata così a rischio”.
CHIEDERE SCUSA SENZA ESSERE COLPEVOLI
Nel suo articolo la giornalista descrive un mondo dove buono e cattivo non si riconoscono più, dove tutto viene mischiato in nome di una concezione suprema: “La cosa che trovo più preoccupante, il pensiero che mi ha portato sull’orlo delle lacrime, è il modo in cui la Gran Bretagna – una delle nazioni più tolleranti, giuste e meno prevenute al mondo – sembra essere stata contagiata dalla stessa malattia che negli ultimi dieci anni circa, ha fatto a pezzi l’America”. Cosa intende? “Le persone parlano di “guerre culturali”, spesso senza sapere davvero cosa significhi. E fino a poco tempo fa l’idea sembrava un concetto abbastanza astratto, il tipo di termine scandito dai presentatori televisivi e dagli accademici di Newsnight, ma in gran parte irrilevante per la gente comune”. Adesso invece, dice, nei campus e nelle strade americane imperversano battaglie, questioni di politica, razza e identità sono diventate polarizzate, spogliate di ogni sfumatura, semplificate oltre ogni ragione: è impossibile fare dibattiti costruttivi. “Praticamente da nessuna parte è possibile avere un dibattito aperto e costruttivo sui pro e contro di ogni dato problema. La ragione è stata sostituita dall’insulto, l’intelletto dall’emozione pura, la curiosità dal preconcetto” scrive ancora. E nelle strade si riversano queste conseguenze, come dopo la morte di George Floyd, con la distruzione e gli scontri. Soprattutto una cosa sottolinea la giornalista: che tutti i bianchi siano colpevoli e debbano scusarsi. Non è così, dice, citando la foto di una mamma con la foto della figlia di 7 o 8 anni con un cartello in mano in cui chiede scusa per il “suo privilegio di essere bianca”. Ma non è così né da una parte né dall’altra: “qualsiasi deviazione dalla narrazione dell’estrema correttezza politica, viene interpretata come un crimine di pensiero e quindi repressa e condannata”.