L’epidemia è ancora viva e vegeta, ci informano i bollettini in arrivo da terre vicine e lontane. Ma l’attenzione, un po’ dappertutto, è già rivolta al mondo che verrà. E che sarà senz’altro diverso, anche se non è ben chiaro come. Il dibattito, al proposito, è già aperto. Anche in forme sorprendenti. In Cina, ad esempio, a creare scalpore è stato nientemeno che il premier Li Keqiang, il potente gestore del Celeste Impero che ama lasciare la ribalta all’Imperatore Rosso, Xi Jinping. Li, contraddicendo l’immagine ufficiale di un Paese lanciato verso il benessere, ha voluto ricordare dalla tribuna del Congresso che il 43% della popolazione dispone di un reddito inferiore ai 600 dollari e non gode del benessere raggiunto da quella classe media che abita i quartieri di lusso di Shanghai e di Shenzhen.
E così Li, pochi giorni fa, ha voluto visitare un mercato dello Shandong per intrattenersi con gli ambulanti. “Il Paese – ha detto in quell’occasione – è fatta di gente come voi. E la situazione è Ok, se voi siete Ok”. Un netto cambio di passo rispetto alla retorica della Via della Seta. Complice l’epidemia, la disoccupazione ha colpito duro anche i figli della stagione del benessere, magari laureati in un’università americana e finiti a gestire un chiosco in strada.
Anche a Oriente, insomma, perde colpi l’ascensore sociale, quello che ha consentito a molti talenti di emergere in un’inedita nuova “terra delle opportunità”. E lo Stato, tra una repressione del dissenso a Hong Kong e l’altra, cerca di trovare soluzioni nuove. Anzi, antiche. E insufficienti. “Non possiamo tornare indietro, rinnegando l’igiene”, recita una lettera di protesta contro il premier pubblicata dal Quotidiano del Popolo, un evento rarissimo.
Il conflitto che cova nella società cinese non è poi così diverso dal malessere americano cui ha fatto da detonatore l’esplosione della protesta razziale, ma che trae alimento dalle enormi disparità di reddito destinate a condizionare il voto del prossimo novembre quando si confronteranno l’America che chiede un aumento della spesa sanitaria (e delle tasse) con quella che, da Ronald Reagan a Donald Trump, non ha lesinato sgravi fiscali e bonus vari. Biden, se eletto e se dotato di maggioranza anche al Senato, cancellerà i tagli di imposte del 2017-18 e riporterà indietro gli utili per azione distribuiti dalle corporations. Il rialzo delle imposte sarà graduale, per non stroncare sul nascere la ripresa post-Covid, ma il messaggio sarà chiaro e sarà contro l’America del business.
E l’Europa? In qualche maniera, come sempre, si adeguerà alla corrente in arrivo da oltre Oceano. Ma prima dovrà affrontare il macigno del debito, che come un gigantesco iceberg minaccia di mandare a picco il Vecchio mondo, oggi affascinato dalla possibilità di stampare carta a volontà che, però, è destinata a trasformarsi in tante cambiali. Le grandi rivoluzioni, ci insegna la storia, nascono sempre da questioni fiscali. Ne sapeva qualcosa il povero Luigi XVI, assillato dall’affascinante ma impopolare consorte austriaca, che non trovò di meglio che indire gli Stati generali, una scelta che non gli portò del bene.