Cari lettori, dopo qualche settimana vorrei tornare ad aggiornarvi su quello che succede per mare in tempi di quel che si spera sia il post-Covid, i momenti delle fasi due, tre o qualsivoglia, tra grandi annunci e azioni. Forse dovremmo dire anche inazioni in certi casi, come sappiamo bene noi italiani, dei vari governi e delle banche centrali in giro per il globo. Già durante l’emergenza pandemica il mercato marittimo era stato, come spesso del resto, un ottimo pioniere delle dinamiche economiche globali anticipandoci rallentamenti quando non paralisi e allo stesso modo potrebbe indicarci il seguito che verrà.
D’altra parte non capita spesso, anzi praticamente mai, di trovarsi davanti a un doppio shock di domanda e offerta simultaneamente, quindi anche il territorio successivo all’emergenza risulta decisamente imprevedibile, una circostanza ideale per affidarsi alla tradizionale bussola dei trasporti via mare per tracciare la rotta di una eventuale ripresa. Non dico che il metodo sia infallibile, anzi in passato vi ho anche esemplificato l’opposto, ma sicuramente può offrire svariati spunti di riflessione sulla presunta ripresa a V o l’eventuale fatidico “Day after tomorrow”.
Con questa colorita citazione cinematografica lungi da me un richiamare una retorica apocalittica come quella quotidianamente nutrita in questi mesi dall’allarmismo mediatico. Il riferimento piuttosto va all’atteggiamento tenuto dalle varie istituzioni che hanno sfornato il più grande cocktail di eccessi, sia espansivi che restrittivi, della storia moderna con la tipica disinvoltura di chi sembra non aver più nulla da perdere. Infatti, presi dal panico sanitario, siamo rimasti quasi totalmente indifferenti davanti a un susseguirsi di eventi dalle modalità e dalla portata a dir poco eccezionali che sarebbe ingenuo pensare che non avranno conseguenze della stessa magnitudo. Abbiamo assistito a draconiane restrizioni alle libertà fondamentali su cui si erge la nostra civiltà, non solo la sacrosanta libertà di circolare, ma soprattutto di lavorare, di produrre e di tenere in moto il motore economico di gran parte del mondo.
In parallelo abbiamo sentito e letto di stampanti monetarie incandescenti, di miliardi su miliardi soprattutto di dollari, ma non solo, venire creati dal nulla per tenere in piedi un motore già semi-ingolfato che di colpo veniva pericolosamente arrestato causa forza maggiore Covid-19. E ancora una sproporzionata e assimetrica messa in campo di aiuti di Stato per aiutare interi settori dell’economia prossimi al collasso. A fronte di tutto questo, hanno cominciato e continueranno a fioccare dati macro spaventosi come svariate decine di milioni di disoccupati solo negli Stati Uniti. Previsioni di crollo dei Pil a doppia cifra quasi ovunque e l’inevitabile susseguirsi di svariate bancarotte. Lo so, di queste ultime si legge poco sugli organi d’informazione, ma sapete com’è, bisogna evitare il panico quando è controproducente a meno che non sia strumentale… Ogni riferimento è puramente casuale!
Per restare in tema di Stati Uniti, la settimana scorsa Reuters, con un trafiletto di 10 righe, accidentalmente, ci informava che secondo l’American Bankruptcy Institute a maggio si è registrato un incremento del 48% di Chapter 11 (procedura di fallimento statunitense) rispetto allo stesso mese del 2019. L’incremento dal mese di aprile di quella che definiva l’iniziale ondata di insolvenze scatenate dalla distruzione del Covid è stato del 28%, ma ci teneva a sottolineare che il totale delle insolvenze anno su anno era sceso del 42%. Quale migliore dimostrazione che il bello della statistica e delle percentuali sia quello di riuscire a confortare gli interessati nel momento del bisogno. Tuttavia, a voler essere pragmatici bisognerebbe ragionare su un paio di fattori che questo ente americano distrattamente tralascia.
Il primo e il più ovvio è il cosiddetto trend, quello che marca un’inevitabile e improvvisa accelerazione di bancarotte. Il secondo, non meno importante, è l’aspetto qualitativo delle bancarotte in questione. Per citarvi un esempio che aiuti a capire cosa intendo, vi ricordo la clamorosa resa della famosa Hertz, per adesso limitata solo alle succursali e controllate americano-canadesi. Non vorrei andare fuori tema, solo su questa storia andrebbe scritto un articolo dedicato per dare una reale percezione dell’impatto economico, ma vi farò una sintesi. Decine di migliaia di disoccupati, centinaia di migliaia di veicoli che innonderanno il mercato della seconda mano, senza dimenticare indotto di pezzi di ricambio e manutenzioni. Per non parlare della mole di debito per una flotta di autovetture non certo pagata cash, logicamente tutto impacchettato con altri prodotti finanziari e rivenduto a ignari investitori.
Vi ricorda qualcosa l’ultimo passaggio? Di sicuro pessime notizie per i produttori di macchine che già sono impegnati in una strenua lotta, se mi passate il gioco di parole, per non seguire a ruota. Non solo perché alcuni dei loro più grossi clienti non acquisteranno i soliti grandi volumi di nuovi veicoli, ma perché uno su tre di quelli esistenti gli tornerà indietro essendo loro i “lessor”. Intanto neanche passa una settimana che a seguire la Hertz, numero 2 del comparto nazionale, arriva la meno conosciuta Advantage, ovvero la numero 4. Nonostante la medaglia di legno, va detto che le dimensioni di quest’ultima sono notevolmente inferiori a quella del prestigioso gigante che l’ha preceduta, ma la somma dei due amplifica la pressione sul medesimo mercato e nessuno esclude che altri siano in procinto di seguirle.
Bene, queste sono solo due delle insolvenze di maggio che inquadrano i due fattori che volevo prendere in esame, non certo compagnie che falliscono tutti i giorni, né tantomeno classificabili come una vale una. In compenso, come ben sapete, Wall Street, sempre più a braccetto con la realtà, ha aggiornato i nuovi massimi. Ma in effetti anche qui si sbanda facile se ci si ferma a un singolo grafico. Prendiamo l’indice tecnologico Nasdaq come esempio. Si dice che il diavolo sia nei dettagli e personalmente trovo più istruttivo il grafico sulla composizione di questo indice piuttosto che quello che ne traccia l’inarrestabile andamento rialzista. Fa non poco effetto notare che metà dell’indice è rappresentato dalle sole 5 big tecnologiche Facebook, Amazon, Apple, Google e Microsoft. Così come fa impressione scoprire che la sola Amazon ora capitalizzi di più dell’intero Dax di Francoforte.
Ebbene sì, la società di e-commerce che dà lavoro a 640.000 persone nel mondo vale di più dell’intera borsa Tedesca le cui società ne impiegano svariati milioni. Personalmente sono favorevole allo stimolo monetario in momenti di crisi, ma oltre al problema che sia sempre più palesemente strutturale quello che davvero preoccupa è vedere l’allocazione insensata di questi fiumi senza precedenti di liquidità che sembrano ancora confluire solo a pochi eletti di Wall Street.
Adesso volgiamo lo sguardo verso la seconda economia del mondo, quella da cui è partita la disastrosa epidemia, la Cina. Da cui il nostro Governo sembra pendere sempre più dalle labbra. Anche loro hanno annunciato grandi pacchetti di stimolo e incrementi di deficit per far fronte all’emergenza, ma come sempre la discrepanza tra i dati ufficiali e quelli degli analisti esterni è abissale. Per citare qualche numero, la disoccupazione ufficiale dovrebbe aggirarsi sui 26 milioni di unità, mentre Bnp Paribas ne stima più di 105. Oppure l’obiettivo ufficiale di deficit fissato al 3,5% contro l’aspettativa degli analisti per un 10% reale. Insomma, come al solito le cifre del Dragone rischiano più di confondere che chiarire la situazione, quindi forse è meglio limitarsi ad analizzare gli aspetti narrativi della recente Assemblea generale del popolo.
Positiva l’annunciata intenzione di usare gli stimoli sopratutto per creare posti di lavoro, presumibilmente attraverso investimenti nelle infrastrutture, ma parlando di 9 milioni di nuovi occupati, rispetto agli 11 del 2019, scopriamo il loro target più basso dal 2013 e ben lontano dalla leggendaria ripresa a V.
Ancora meno incoraggiante che per la prima volta dopo 40 anni non venga fissato un obbiettivo ufficiale di crescita, questo probabilmente non solo perché passare dal 6% abbondante al 3% massimo non sia propagandisticamente edificante, ma forse perché sarebbe ancora peggio mancarlo, magari scivolando sotto lo zero come ventilato dai più pessimisti.
Per concludere che dire del vaso di terracotta chiamato Europa, quello che sta proprio nel mezzo dei due suddetti vasi di ferro? Con la solita efficenza che ha contraddistinto l’esperimento unionista del Vecchio continente, la risposta comune è stata allineata all’ormai consolidata aspettativa. Un bel nulla nel migliore dei casi, ma senza farsi mancare la solita imperdibile occasione per dimostrare che l’unico collante tra i vari Paesi risulta sempre lo stesso: la banca centrale causa moneta comune. Per fortuna penseranno molti se non tutti, ma in realtà pure quello che funziona meglio fa acqua da tutte le parti e per svariate ragioni. Per esempio, il totale scollegamento tra una politica monetaria generalista rispetto a politiche fiscali separate che porterà come al solito a una totale asimmetria delle fragili economie nazionali.
Come se questo non bastasse, ora vediamo la stessa Bce inevitabilmente costretta a sconfinare dal limite dei Trattati aprendo un insidioso conflitto legale con e tra Paesi che mette a rischio l’esistenza della moneta unica e, chissà, forse dell’Unione europea stessa. Non che personalmente trovi questa eventualità così spiacevole, ma persino il più convinto degli euroscettici mentirebbe se sostenesse che questo contesto, con la probabile depressione economica già in corso, non allontanerebbe definitivamente la speranza di una ripresa a V assicurandone una a L.
Penserete che sono andato completamente fuori tema e tutto quello di cui vi ho parlato, effettivamente, non sia shipping, ma lo stato di salute dei tre grandi centri del commercio globale citati sono i suoi fondamentali. In realtà, signore e signori, il mercato marittimo è rimasto piatto e depresso come avevo descritto nei miei precedenti articoli, ancora di più adesso che è svanito l’effetto contango sul barile e anche le cisterne iniziano a fare i conti con la realtà aggravata dall’incombente stagionalità.
A oggi dal mare arrivano solo tristi conferme di quello che tutti già sanno, che i risultati del secondo trimestre 2020 entreranno nella storia come i più depressi che chi sia in circolazione oggi abbia mai sperimentato, ma ben più interessante sarà quello che ci dirà nei mesi a venire, perché proprio da li potrebbero arrivare i primi concreti segnali di una sospirata ripresa.