Esattamente 10 anni fa, il 15 giugno 2010, a Pomigliano d’Arco veniva scritto un pezzo di storia importante del nostro Paese. Come tutti ricorderanno, si giunse infatti alla firma del contratto Fiat, così dirimente per l’economia italiana e per le relazioni industriali, che apriva a una nuova fase che ancora oggi è in cerca dei giusti assestamenti.
Per molti commentatori – al di là dei detrattori – la grande novità della vicenda fu il legame tra salario e produttività del lavoro. In realtà, l’aspetto disruptive del caso è il combinato tra l’uscita da Confindustria e l’esito giudiziale, in particolare della sentenza della Corte Costituzionale del 2013: il contratto Fiat fu dichiarato legittimo in quanto conforme alle leggi dello Stato, e nessuna norma -sentenziò la Corte – impedisce di contrattare al di fuor del perimetro delle organizzazioni maggiormente rappresentative. La rottura tra Fiat e il sistema confindustriale dava così origine a questa problematica fase di proliferazione dei contratti che conduce oggi all’ipotesi di salario minimo legale, su cui abbiamo più volte scritto.
Cosa val la pena di rimarcare dieci anni dopo? Innanzitutto, due considerazioni storiche che, all’interno della letteratura sul caso (a parte Bruno Vitali e Giuseppe Terracciano), sono stato l’unico a sottolineare nel mio Da Torino a Roma – La crisi dei corpi intermedi e il futuro della rappresentanza (introduzione del già Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, Guerini e Associati 2015).
In primis, nessuno ha mai dato risalto al condizionamento che gli accordi sottoscritti hanno posto a Marchionne e alla Fiat; l’azienda aveva infatti seriamente considerato l’opzione di procedere motu proprio con un regolamento invece che un contratto (la legge lo avrebbe consentito).
In secondo luogo – questo fatto è altamente significativo – una settimana prima della firma degli accordi di Pomigliano, Marchionne aveva deciso di interrompere le trattative. Venerdì 11 giugno 2010 alle ore 16, il negoziato era praticamente concluso; la Fiat aveva messo sul tavolo la sua ultima offerta. A quel punto le delegazioni chiesero una sospensiva per poter prendere una decisione. Prima di proseguire le discussioni, i sindacati valutarono di proporre un referendum vincolante sull’ipotesi di accordo che si andava prefigurando, in modo da evitare lo strappo sindacale, vista la reticenza alla firma da parte della Fiom.
Alle 17 Marchionne telefonava a Paolo Rebaudengo a intimargli di lasciare il tavolo e di comunicare chiuso il progetto Pomigliano; la nuova Panda si sarebbe prodotta a Tichy, in Polonia. Rebaudengo spiegò all’amministratore delegato di Fiat che bisognava attendere il responso dei sindacati al termine della sospensiva. Marchionne si era stancato del protrarsi della trattativa e il “piano B” (Tichy) sembrava prendere il sopravvento, anche perché più conveniente per l’azienda. Naturalmente, lo stabilimento di Pomigliano avrebbe continuato a lavorare a singhiozzo con una minima parte di personale e si sarebbe gestita, probabilmente in modo unitario, l’agonia della fabbrica attingendo massicciamente alla cassa integrazione.
Maurizio Landini, oggi Segretario generale della Cgil, pareva confortato dall’idea del referendum. La discussione della delegazione Fiom fu lunga, ma alla fine Landini comunicò alle altre delegazioni che “la Fiom è contraria, non firmiamo; nemmeno se il referendum approva”.
Alle 18:30 i segretari di Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Quadri si presentavano da Paolo Rebaudengo e da Giorgio Giva e accettavano l’ultima proposta negoziata con Fiat. Ci si dava appuntamento al pomeriggio di martedì 15 giugno per la firma dell’ipotesi di accordo, mentre il referendum veniva convocato per la settimana successiva, nei giorni 22 e 23 giugno, con la speranza di ripescare anche Landini e la Fiom, referendum che poi diede esito favorevole all’accordo con il 62% dei voti.
Cosa si contendevano le due posizione sindacali contrapposte? Chi sottoscrisse quegli accordi, scelse di dare priorità a investimenti e occupazione; chi si opponeva, reagiva non tanto alla nuova organizzazione del lavoro, quanto ai nuovi assetti regolatori. La battaglia della Fiom era una battaglia di principio, temeva un contraccolpo per la contrattazione nazionale. In realtà, la firma del contratto collettivo nazionale del 2016 (26 novembre) avrebbe poi portato la Fiom a riconoscere le medesime impostazioni.
La patologia fu tale che non si trovò una mediazione. Era impossibile trovarla? In realtà, l’istituzione di un contratto nazionale del settore auto, che recepisse le intese di Pomigliano, non solo avrebbe evitato il contenzioso ma dava pieno riconoscimento a un comparto strategico dell’industria italiana. La Fiat lo avrebbe firmato e anche la Fiom, per la gioia di Confindustria. Ma le confederazioni, in particolare, non furono in grado di costruire una mediazione e i metalmeccanici ebbero paura di spacchettare il ccnl metalmeccanico e di tirar fuori il ccnl dell’auto così da dar origine ad una possibile diaspora dal contratto più longevo dell’industria italiana in cui convivono molti ambiti della metalmeccanica e dell’impiantistica. Ma nessuno immaginava a cosa si stava andando incontro.
Fu certamente giusto firmare gli accordi con Fiat, bisognerebbe chiedersi cosa ne sarebbe della nostra industria se il Lingotto avesse chiuso la sua produzione in Italia. Oggi vi è la scommessa Fca-Psa, ma quel ciclo ha dato ragione a Marchionne e a chi con lui ha firmato accordi.
A ogni modo, all’inizio di una nuova fase dell’economia, non possiamo non rimarcare quanto sia importante trovare soluzioni unitarie con gli investitori, non solo a livello sindacale ma anche politico. Perché è evidente che, in presenza di soluzioni figlie di strappi e rotture, poi si presenta sempre il conto da pagare. E, normalmente, è un conto che viene pagato dal lavoro.
Twitter: @sabella_thinkin