Più chiaro di così Sergio Mattarella non poteva essere: la riflessione avviata in questi giorni deve saper arrivare a risultati concreti. Detto sabato, nelle stesse ore in cui si avviavano gli “Stati generali” di Villa Pamphili, queste parole possono avere un’unica lettura, che il Quirinale teme di trovarsi davanti a tanto fumo e a niente arrosto. E per chi avesse dubbi sull’interpretazione del pensiero del presidente della Repubblica si rifletta sulla richiesta “che l’impegno sia corale, autentico, aperto. Che abbia lo sguardo rivolto al futuro, e non a effimeri interessi personali o di parte, a rendite di posizione, a stasi o rinunzie frutto di timore”.
Senza dubbio sabato a Giuseppe Conte sono fischiate le orecchie. È lui il primo destinatario del richiamo, anche se non l’unico, perché di certo c’era anche un invito all’opposizione a non sottrarsi al confronto, sotto forma di auspicio alla partecipazione. Al contrario, la richiesta di dialogo e ascolto era senza dubbio rivolta al premier di un governo che sinora alla minoranza non ha concesso assolutamente nulla.
Ma ancor prima dei contenuti, il discrimine è il fattore tempo. Mattarella teme che quella “attesa esigente” che sente nel paese vada delusa. In troppi vedono negli Stati generali un artificio per prendere tempo. Per quale ragione?
Due, essenzialmente. La prima consiste nel cercare di allungare la vita del governo mettendo una quantità esagerata di carne al fuoco, partorendo (con calma) un programma enciclopedico, un libro dei sogni tanto vasto quanto irrealizzabile. E allungando il brodo si ottiene l’altro effetto, chiudere ogni finestra a possibili crisi di governo che possano scivolare verso il voto.
Fantapolitica? Proviamo a mettere in fila un po’ di ascendenze istituzionali. Tirarla per le lunghe adesso nel definire il piano di rilancio del paese ha l’effetto di chiudere l’ipotetica finestra elettorale di settembre, guarda caso quella che con grande ritardo il centrodestra ha provato a reclamare, per la verità con poca convinzione e senza serie carte in mano per ottenerla.
Il 20 e 21 settembre (la data è ormai pressoché certa) non si voterà quindi per il rinnovo del Parlamento, ma per sei consigli regionali, un migliaio di comuni e soprattutto per il referendum confermativo della riforma costituzionale che prevede il taglio del numero dei parlamentari. Dando per scontata una larga affermazione del sì, si apre poi una fase di adeguamento della legge elettorale ai nuovi numeri, 400 deputati e 200 senatori. Vanno come minimo ridisegnati i collegi elettorali, ma la maggioranza è intenzionata a riprendere in mano la riscrittura sostanziale del Rosatellum. Potrebbe esserci addirittura un’accelerazione intorno al “Brescellum”, dal nome del presidente della commissione Affari Costituzionali, il pentastellato Giuseppe Brescia, su cui la maggioranza aveva trovato un’intesa politica alla vigilia del lockdown. Si andrebbe nella direzione di un sistema proporzionale con sbarramento nazionale al 5% e senza coalizioni. Un sistema che sembra fatto su misura per sbarrare la strada di una vittoria al centrodestra, che resta saldamente in testa secondo tutti i sondaggi, con almeno sei punti di vantaggio sull’area di governo. Numeri larghi, che il Rosatellum potrebbe trasformare in una comoda maggioranza parlamentare, e poco conta che sia in corso dentro questo schieramento una cospicua redistribuzione dei consensi fra Lega e Fratelli d’Italia.
La fase di riscrittura della legge elettorale, fra dibattito parlamentare e definizione dei collegi, potrebbe per mesi rendere impossibile il ricorso alle urne, rendendo di fatto ineluttabile la prosecuzione dell’esperienza di governo giallorossa. La data chiave a quel punto diventa il 3 agosto 2021, quando comincerà l’ultimo semestre della presidenza Mattarella, quel “semestre bianco”, in cui il Capo dello Stato perde il potere di sciogliere le Camere.
A questo Parlamento, con gli equilibri del 2018, toccherebbe quindi eleggere nel gennaio 2022 il futuro inquilino del Quirinale, con il centrodestra ininfluente.
Un doppio risultato, quindi, a tutto danno dell’opposizione, sbarrare la strada tanto di Palazzo Chigi, quanto del Quirinale, forse per un lungo periodo, forse per sempre. Basta poco, basta perdere ancora un po’ di tempo, mentre l’Italia attende decisioni urgenti su una ripartenza che non può aspettare.