A 63 anni una persona dovrebbe aver messo la testa a posto già da un po’. A Spike Lee, classe 1957, di mettere la testa a posto non importa nulla, continua a ragionare con rabbia lucida, a fregarsene di regole e formalità – almeno in campo cinematografico – e ad agire di puro istinto. Questo significa che il suo nuovo film, Da 5 Bloods, disponibile su Netflix, è un film incasinatissimo, certo, ma pieno di cose interessanti.
Come fratelli recita il sottotitolo italiano e il film racconta di questi fratelli di sangue che servirono gli Stati Uniti nella guerra in Vietnam, soprattutto del loro viaggio di ritorno nel Paese asiatico ai giorni nostri e della missione di ritrovare il corpo del loro caposquadra morto in guerra assieme al contenuto del velivolo in cui morì, ovvero un’enorme quantità di lingotti d’oro.
Lee, assieme a Danny Bilson, Paul De Meo e Kevin Wilmott, scrive un film d’avventura che è anche, come sempre, una rivendicazione razziale fuori dagli stereotipi, nella quale raccontare l’evoluzione del razzismo negli anni (proseguendo il discorso del precedente Blackkklansman), partendo dal ruolo degli afroamericani nella guerra – e la loro opposizione sostanziale – e arrivando a Black Lives Matter (il film è stato scritto nel 2018, ma la situazione non è minimamente cambiata).
E questi 40 anni e rotti Da 5 Bloods li comprime in due ore e mezza cercando proprio di comunicare allo spettatore tutto il vigore, il dolore, le battaglie e le sconfitte di questi anni, mescolando il film di guerra e l’azione con i dibattiti e i temi politici, mettendoci dentro tutte le possibili riflessioni sul rapporto tra potere dominante e minoranze, la rappresentazione della guerra e la propaganda, la follia e le sfaccettature di una comunità che non è riassumibile in un solo movimento, così come non basta un solo film per raccontarla.
Lee traduce questa furia in un film che cambia di continuo tutto: il supporto di ripresa, la grandezza dell’immagine, il genere di riferimento, il tono, l’importanza dei personaggi, la struttura e lo stile. Lee della quadratezza e solidità del cinema mainstream Usa fa volentieri a meno perché rimodula il proprio sguardo e il proprio racconto incessantemente, a seconda di ciò che l’istinto gli dice di raccontare, gli suggerisce di mettere in scena: quello sguardo è una finestra sul tempo e sullo statuto delle immagini, sulla realtà e sulla sua percezione ed è una finestra che non è monolitica ma prismatica, cangiante.
Questo significa che non mancano le lungaggini e i cali di ritmo, che il film appare a tratti sgangherato e senza rigore, con momenti che potremmo definire “brutti”, ma anche che quell’intelligenza cinematografica e quell’energia sono incontenibili, che rendono il film imprevedibile e coinvolgente, affascinante sotto il profilo visivo e diretto da quello politico. Un film che chiede allo spettatore di prendere o lasciare, di lasciarsi andare al tumulto, oppure rifiutarlo.
Personalmente prendo, ma in ogni caso un cinema del genere, un istinto del genere merita di essere rispettato oggi più di ieri.