Pechino, megalopoli di 22 milioni di abitanti dichiarati ufficialmente (in realtà molti di più), è tornata nel lockdown più energico con sole 137 persone positive al Covid. Che cosa sta succedendo? I casi sono molti di più, ma ancora una volta i cinesi non ce lo dicono? Pechino ha chiuso scuole primarie e secondarie dopo il focolaio nel mercato all’ingrosso di Xinfadi, i due aeroporti della capitale hanno cancellato oltre 1.200 voli. Siamo davanti all’insorgere della seconda ondata del coronavirus tanto temuta e che fra qualche mese toccherà anche a noi? Ne abbiamo parlato con Giuliano Noci, professore ordinario in Ingegneria economico-gestionale, che insegna Strategia & Marketing al Politecnico di Milano ed è prorettore del Polo territoriale cinese dell’ateneo milanese.
Che cosa sta succedendo secondo lei a Pechino?
È abbastanza logico quello che sta accadendo. Per capirlo però bisogna entrare nel sistema di valori confuciani, quelli che reggono la Cina prima dei valori comunisti.
Ci spieghi.
Il sistema su cui è fondata la Cina presuppone tra le altre cose che lo Stato funga da padre della società, pater familias. In questo senso il sistema cinese sta in piedi, a dispetto di quello che pensano i media occidentali, se il partito comunista garantisce migliori condizioni di vita, svolgendo così il ruolo di buon padre di famiglia. Fino a qualche anno fa l’obbiettivo del partito era garantire una buona crescita economica. Poi ha compreso che non bastava e che quindi era necessario occuparsi del benessere e della qualità della vita. La Cina, che pure continua a essere un paese ad alto tasso di inquinamento, è però diventato il primo paese al mondo per investimenti in tecnologie pulite, superando qualunque altra nazione.
Quindi con una migliore qualità della vita?
Lo ha fatto non tanto perché segue una filosofia ambientalista, ma perché i livelli di inquinamento erano tali da determinare nei cittadini una profonda insoddisfazione.
Quindi il partito, lo Stato-padre, viene messo in questione.
L’emergenza sanitaria Covid-19 diventa un elemento di grandissima rilevanza, al di là dell’emergenza stessa, proprio perché viene messo in discussione il ruolo dello Stato. Il fatto che i nuovi casi stiano accadendo proprio a Pechino, che nella prima emergenza aveva adottato la chiusura totale, preoccupa moltissimo. Nel momento in cui hanno rilasciato le briglie con le riaperture il virus non era ancora del tutto scomparso e ora li ha portati a comportarsi con la durezza tipica di quel mondo.
Rispetto alla prima fase, quella di Wuhan, lo Stato-padre si è però mosso in ritardo, è d’accordo?
Certamente, è un fatto conclamato. Ma a mio avviso c’è una spiegazione.
Quale?
Si è agito in ritardo perché il partito funziona, nella sua gerarchia, seguendo un principio di ascesa sulla base dei galloni conquistati a livello locale. Per i funzionari di Wuhan deve essere stato un problema enorme comunicare la cosa, perché significava bloccare la loro carriera. Il partito comunista ha un principio quasi meritocratico, ma in senso estremo: ogni funzionario ha degli obiettivi e se non li rispetta non fa carriera. Lo stesso Xi è partito dalle province più remote del paese scalando tutti i gradini fino a diventare un imperatore. Il ritardo credo sia in parte dovuto a questo. Poi, è evidente, c’è un tema politico centrale.
A cosa si riferisce?
In una Cina ossessionata dal dare di sé una immagine positiva nel mondo, essere l’epicentro di questa epidemia è stato un problema.
Anche il modo con cui è stata comunicata al mondo la pandemia è stato gestito malamente, non crede?
C’è un vecchio adagio, che una volta mi riferì un ambasciatore italiano in Cina: se vuoi pensare in grande, parla con un americano; se vuoi pensare in profondità, con un europeo; ma se vuoi pensare nel lungo periodo, discuti con un cinese. La Cina, in realtà, cerca di affrontare ogni situazione con la prospettiva di medio-lungo periodo: hanno piani fino al 2050. Credo che i cinesi, accanto alla gestione della crisi, le mascherine per capirci, stiano profondamente riflettendo su come far leva su questa situazione di disequilibrio per cercare una qualche forma di vantaggio in Europa.
In che senso?
In questo momento l’Europa è oggetto del contendere fra Usa e Cina e ciascuno dei due gioca in modo più o meno lungimirante. La Cina penso stia facendo questa riflessione. Sarà interessante vedere cosa succederà alle prossime presidenziali americane. Per la Cina cambierà molto se rimarrà Trump o se vincerà Biden.
In meglio o in peggio?
Se vince Biden per loro cambia in peggio. Come si vede, i dialoghi bilaterali con il presidente Trump, che pure con virulenza ha attaccato la Cina, continuano. I cinesi sperano in Trump, che ha avviato il confronto muscolare, ma è alleato con la Cina sull’Europa. Trump ha un atteggiamento muscolare anche con l’Europa e un’Europa lasciata sola è un boccone per la Cina. Biden, pur senza cambiare in modo vistoso la politica estera americana, terrà un atteggiamento diplomaticamente più elegante.
(Paolo Vites)