Il ministro degli Esteri turco ha fatto attendere il ministro degli Esteri di uno Stato storicamente unito alla Libia dall’età giolittiana e in cui ha degli interessi energetici dagli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, che si era recato a conferire con il rappresentante degli interessi neo–ottomani su quella sponda nordafricana. Si tratta piuttosto che dell’Italia, del Governo italiano, questo va detto. Ma la questione che sarà storiograficamente interessante tra qualche anno – quando dalla storia si trapasserà nella storiografia internazionale e in quella che si dedicherà alla decadenza degli Stati – è il fatto che il rappresentante di un manipolo di tribù libiche alleate con la Turchia è (ancora?) non il solo rappresentante dell’Onu in Libia, ma è anche dalla caduta tragica di Gheddafi in poi il riferimento italiano nella convulsa transizione a una Libia amministrata per procura da Russia, Turchia, Egitto, Qatar e Arabia Saudita.
Le nazioni prima nominate si confrontano nell’arena di potenza geopolitica, ma in Libia si avviano – come in Siria del resto – a una cogestione anti–francese e anti–Usa trovando un accordo fatto di accordi bilaterali a geometria asimmetrica. Pongono così le basi per una successiva spartizione del Nord Africa e del Grande Medio Oriente. Vedremo che pedine muoveranno gli Usa dinanzi a una delegittimazione della Nato e della potenza nordamericana.
La Cina – non se ne accorge ancora nessuno per la potenza del soft power dell’Impero di Mezzo – è fuori gioco e ancor più lo sarà in futuro per la crisi di leadership del Partito comunista cinese e di quell’economia monopolistica di Stato, accelerata e non provocata dal Covid.
Mentre si consuma la spartizione della Libia – solo ostacolata dalla Francia che in essa vede un pericolo per la continuità del suo dominio post–coloniale estrattivo delle nazioni centroafricane fortemente dominate ancora dal capitalismo francese –, il Governo italiano è riunito da giorni e per giorni in una villa romana. È una sede istituzionale governativa che sarà posta in futuro al centro di quella storiografia che ci svelerà che il Governo che è stato nella sostanza offeso dal Governo turco è stato incapace di difendere i suoi interessi prevalenti nel Mediterraneo. Lo stesso Governo che non risponde all’offesa che gli è stata fatta, ma discute faccia a faccia on line con decine e decine di interlocutori con i quali dovrebbe inverare una serie di provvedimenti anti–crisi pandemica senza occuparsi – a quanto pare – del ruolo internazionale di quella che è ancora seconda (o la terza?) potenza economica europea.
Insomma, si sta disvelando nel suo disfacimento istituzionale (il premier Conte non ha affrontato in Parlamento i provvedimenti europei violando una legge varata durante il Governo Monti! – onore delle armi!) la sua perdita di influenza nel novero del concerto e nel confronto delle nazioni. Rimane un’immagine sovracomunicata del solo Governo in carica attraverso tutti i mass media che fanno il loro mestiere e non sono certamente la causa di questa sovraesposizione, e che non possono che amplificare in tal modo il gioco di specchi di una mucillagine peristaltica che altro non sa fare, purtroppo, che governare la nazione con la paura della pandemia.
La perdita di influenza internazionale è direttamente proporzionale alla caduta della nostra reputazione istituzionale. È sempre la collocazione nell’arena internazionale che segna il destino di una nazione. La metafora del mancato appuntamento “turco” disvela la verità. Disvelare la verità è certo iniziare a porre il mondo con i piedi per terra, ma non è sufficiente.