La Lombardia nella pandemia ha pagato un prezzo terribile. Alle difficoltà emerse per affrontare un nemico improvviso e sconosciuto si sono aggiunti protagonismi ed egoismi politici che hanno contribuito a creare una situazione di confusione, di gestione propagandistica e di mancanza di chiarezza. Un comportamento altrettanto politicizzato e viziato da gelosie di protagonismo da parte del Governo nazionale ha riaperto vecchie diatribe e ha risollevato un sentimento anti-lombardo che si pensava ormai finito fra le pagine dei saggi dedicati alla ballerina unità di questo nostro Paese.
È tornata di attualità invece una voglia di rivincita verso la Regione che più di tutte ha le caratteristiche di essere sì la più sviluppata regione italiana, ma anche la regione più europea, quella più coinvolta nelle filiere internazionali. Questi storici e profondi legami fra Lombardia, Europa e mondo riguardano certo innanzitutto la sua struttura produttiva. Qui nasce gran parte del made in Italy, moda e design hanno sviluppato qui più che altrove l’incontro fra creazione artistica e industria. È qui però anche la principale filiera industriale che produce componentistica avanzata per le industrie europee e mondiali, qui robotica e macchine utensili sono fra i settori che ci sono invidiati degli altri Paesi industrializzati.
Non è solo la ricchezza del tessuto industriale e dei servizi che pone la Lombardia fra i centri di eccellenza. Sistema scolastico e universitario sono in rete con i centri mondiali più avanzati al punto che l’interscambio di studenti è divenuto uno dei flussi più significativi della mobilità annuale fra i residenti temporanei.
La defaillance del sistema sanitario e dei suoi gestori politici nel corso di questi mesi ha mutato i sentimenti di ammirazione in sentimenti di rivalsa. Le eccellenze ospedaliere, che pure continuano a essere richieste anche ora da chi viene a curarsi qui, sono diventate prove di un atteggiamento di superbia e hanno aperto un solco fra Lombardia-Milano e resto del Paese.
Alle reazioni che potremmo definire morali corrisponde però a mio parere una divisione più profonda che in questi mesi ha subito un’accelerazione. Nelle politiche nazionali degli ultimi anni ha prevalso una scelta a favore di sussidi al reddito, nuove diseguaglianze nei sistemi pensionistici, ritorno a limiti amministrativi nei rapporti di lavoro, il tutto con uno sforamento dei vincoli di spesa pubblica e tagli a investimenti e politiche per lo sviluppo (si veda la fine di Industria 4.0). Diciamo pure che fra produrre reddito o distribuire reddito ha prevalso la seconda scelta nella completa irresponsabilità verso i vincoli della spesa pubblica improduttiva e verso le alleanze economiche e politiche che abbiamo in Europa e nel mondo.
Il fatto che vi sia una discreta continuità su questi temi fra i Governi Conte 1 e 2 ha certamente creato per i lombardi, abituati a considerare il lavoro la base di tutto (anche del diventar lombardi perché chi lavora qui “è dei nostri”), la sensazione di sentirsi ospiti di un Paese dove non si rispettavano più i principi di fondo. La frattura è oggi presente al tavolo delle consultazioni volute dal presidente del Consiglio. I lombardi, sottorappresentati nel Governo come in tutti i partiti di maggioranza e opposizione, hanno mandato a Roma a rappresentarli il nuovo Presidente di Confindustria. Quest’ultimo si aggiunge a quello di Confcommercio e insieme rappresentano la reale alternativa politica a quanto in modo pasticciato il Governo sta producendo.
Al netto delle richieste particolari che le singole categorie produttive avanzano, le rappresentanze della produzione indicano tre punti fermi: la collocazione europea dell’Italia non è in discussione e dobbiamo accedere e usare tutte le risorse messe a disposizione dai diversi fondi creati in Europa; la priorità del Paese è rilanciare produttività e investimenti ed è così che potremo poi finanziare il rientro dal debito pubblico. Le relazioni fra istituzioni e parti sociali devono avviare una nuova stagione di collaborazione senza corporativismi, né consociativismi.
Certo a questi temi si aggiungono le riforme indispensabili della giustizia, della Pa per liberarci dalla burocrazia, degli ammortizzatori sociali per fare una vera politica attiva del lavoro. Fermarsi alle richieste del pagamento di quanto dovuto in tempi regolari è fermarsi all’esemplificazione che i ceti produttivi fanno per rendere evidente lo scarto fra mondo reale e tempi e modi degli uffici dello Stato. E non ci si può nascondere dietro al fatto che va così già da prima perché nella crisi del 2011 erano già stati provati meccanismi di gestione dei fondi per le imprese e per i lavoratori più efficienti di quelli di questi giorni. Ma i nodi veri sono i tre indicati e soprattutto quello di fondo è la scelta economica.
Il nostro Paese è l’unico fra i più sviluppati che non è tornato ai livelli di crescita dall’avvio della crisi nel 2008. Sia per reddito che per posti di lavoro siamo rimasti indietro. O mettiamo questi obiettivi al primo posto e ne facciamo discendere le scelte attuative oppure scaricheremo nuovi debiti sulle spalle delle generazioni future e ci allontaneremo dai nostri alleati.
I balbettii del Governo su questi temi e la confusione che regna anche nei partiti d’opposizione fanno sì che ci siano due aree sociali che si confrontano nel Paese. In questo la Lombardia, senza guida politica, ha scelto chi si batte per lo sviluppo e il lavoro. Per ora le forze politiche ripetono ricette stanche e legate al passato. C’è bisogno di attenzione al Paese reale. Stare dalla parte dei diritti sociali calpestati, dalla parte di chi vuole una ripresa economica (personale e collettiva) veloce.
Una politica di unità del Paese non può essere né a favore del sussidi, né della rendita, né dell’odio sociale: solo chi coniugherà crescita, sviluppo e inclusione potrà candidarsi e sanare il divario che si è aperto.