Egregio direttore,
l’altra mattina dopo quasi tre mesi sono tornato in una città della Toscana che da anni frequento per lavoro; non sono riuscito a bere il caffè perché entrambi i bar della zona dove ha sede il cantiere erano chiusi, chi dichiaratamente con un “ci rivediamo a settembre”, chi più audacemente con un orario molto ridotto. Così mi è venuto in mente un amico commerciante, che con molta fantasia a partire dal proprio negozio si era letteralmente “inventato” un punto di ristorazione che negli scorsi mesi aveva riscosso grandissimo successo, con centinaia di presenze ogni sera; anche lui, almeno per le cene, non riaprirà, con la conseguenza non solo della perdita di posti di lavoro, ma anche del venir meno di un momento di ritrovo sociale positivo nell’ambito di un quartiere milanese piuttosto degradato.
Certo rimane sempre il tema di come non si sia aiutati dalla politica (alla mia azienda, come a tante altre, ad esempio, i soldi del cosiddetto decreto “cura Italia” di marzo a oggi dopo quasi tre mesi non sono mai arrivati), delle più o meno rilevanti difficoltà operative determinate dai protocolli o di come si mantengano aree di lavoratori iper-garantiti a discapito dei più in crescente difficoltà. Ho recentemente assisto esterrefatto a un lungo colloquio tra due dirigenti di un importante ente pubblico sul problema di come fare rientrare per qualche ora dallo smart working il personale dopo oltre due mesi di assenza, affinché ritirassero gli effetti personali dovendo ristrutturare gli uffici; ma costoro non solo sono recalcitranti rispetto a tale grave incombenza, ma soprattutto essendo ormai prossimi all’inizio delle ferie estive non possono essere “disturbati”.
D’altronde mi ha molto sorpreso anche l’uso indiscriminato dello smart working, non solo perché imposto dalle regole o da necessità, ma spesso perché banalmente con costi inferiori per l’azienda (magari le stesse aziende che hanno investito per anni nel cosiddetto “team building”); ma le persone però non sono riducibili a una funzione dello schermo e se penso come la mia impresa abbia retto l’urto degli eventi nel periodo del lockdown tanto è grazie alla rete di rapporti costruita negli anni con i miei collaboratori e che proprio difronte a questa emergenza si è rilevata un elemento fondamentale.
Comprensibilmente tutto questo un po’ scoraggia e un po’ fa arrabbiare, ma non basta sempre attendersi qualcosa che accade dall’alto, quasi che gli eventi siano una sequenza ineluttabile. Non è così per tutti per fortuna, così capita, un esempio fra altri, che una mia amica riapra il negozio tentando di reinventarsi per quanto possibile il lavoro (magari non riuscendoci per problemi burocratici), oppure facendo le consegne a domicilio quando questa era l’unica attività permessa, anche rimettendoci economicamente, ma mantenendo così il rapporto con la propria clientela oppure cercando di sfruttare gli spazi all’aperto concessi sul suolo pubblico seppure distanti dalle vetrine e anche se ciò vuole dire molto più impegno e fatica.
Per parafrasare una recente lettura. quando per un po’ di tempo non si possono fare le cose solite possiamo tornare a farle in modo nuovo; per questo non servono innanzitutto circostanze particolarmente favorevoli (se ci sono meglio ovviamente), ma essendo determinati da un desiderio e un’attenzione alla realtà che prima forse si davano per scontati e così si possono riscoprire.