Difficilmente nella storia parlamentare italiana si riesce a trovare una maggioranza più scalcinata dell’attuale. Nella prima Repubblica i governi duravano in media 11 mesi, ma il problema erano i contrasti interni alla Dc e le crisi di allora erano sostanzialmente dei rimpasti in cui cambiava anche il premier oltre a qualche ministro. Nella seconda Repubblica, i quinquenni berlusconiani o del centrosinistra sono quasi sempre giunti a scadenza naturale: le coalizioni avevano una coesione interna sufficiente a superare le inevitabili crisi, magari con l’aiutino di qualche responsabile.
In questa legislatura, invece, dove il perno è il M5s, il collante è diverso: non ideale o ideologico, ma puramente pragmatico. Evitare che vinca l’avversario. E tutto è possibile purché non si vada alle urne. Il partito di maggioranza relativa, i 5 stelle, è Spaccato verticalmente al punto che Beppe Grillo si è destato dal letargo per dare manforte a Conte, Di Maio e all’ala “governista” del movimento, quella che due anni fa doveva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e invece si è sistemata nella scatoletta come un’acciuga ripiegata su sé stessa. Il mese prossimo le Camere saranno chiamate a pronunciarsi sul Meccanismo europeo di stabilità e lì si vedrà come il M5s riuscirà a superare la prova e se sarà in grado di essere di sostegno a Giuseppe Conte.
Anche il Pd, secondo pilastro di questo governo, mostra crescenti fibrillazioni. L’altro giorno Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e portavoce dell’ala nordista dei democratici, ha di fatto chiesto un avvicendamento alla segreteria nazionale. Nicola Zingaretti non funziona e la preoccupazione di Gori è largamente condivisa, anche se nessuno finora ha avuto l’ardire di sfidare apertamente il leader e quindi di lanciare una manovra potenzialmente destabilizzante. Per il governo Conte, la mossa di Gori è quasi più preoccupante delle altalene interne al M5s: finora è stato proprio il Pd il puntello principale del presidente del Consiglio in nome della governabilità da garantire in una situazione di emergenza che per il Pd era cominciata l’estate scorsa, ben prima che apparisse la minaccia del Covid-19.
Da parte sua, Conte continua nella tattica del surfista: assecondare l’onda per non farsi rovesciare, scivolando da una promessa all’altra. Il segnale di Gori è soprattutto rivolto a lui: il Nord non ne può più, l’attacco diversivo alla Lombardia non ha sortito effetti, gli imprenditori ma anche i lavoratori chiedono interventi concreti dal governo e non li trovano. I soldi del Recovery Fund non arriveranno subito ma il premier si barcamena negli Stati generali salvo rinviare tutto a settembre. A quel punto l’emergenza non sarà più sanitaria ma economica e guai mandare a casa un governo in una congiuntura simile.
Si dice che Silvio Berlusconi sia pronto a intervenire con le sue truppe parlamentari a sostegno del governo, in nome della responsabilità. Difficile che ciò possa accadere proprio nelle settimane in cui Forza Italia farà campagna elettorale per le elezioni amministrative in Veneto, Liguria, Puglia, Campania a fianco di Lega e Fratelli d’Italia. Le regionali saranno un passaggio importante, tuttavia è remota l’ipotesi che una vittoria schiacciante del centrodestra possa fare cadere il governo: chi si prenderà la responsabilità di staccare la spina al Conte 2 alla vigilia di una legge di bilancio drammatica? Non lo farà neppure Matteo Renzi, che ogni giorno scatena una guerriglia di posizione arrivando a un passo dalla rottura senza però rompere mai. Qualcuno ventila le elezioni a marzo e la sortita di Gori potrebbe esserne un preludio. Ma al momento nessuno è nelle condizioni di aprire la crisi. Dunque, avanti piano, anzi pianissimo, quasi fermi.