Negli anni 90 la Yugoslavia fu sconvolta da una serie di guerre che portarono al suo disfacimento e alla costituzione degli attuali Stati indipendenti: Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina e Macedonia del Nord. Gli scontri furono particolarmente violenti in Bosnia-Erzegovina, data la presenza di tre diverse nazionalità: croati, serbi e bosniaci. La divisione etnica si sovrapponeva a quella religiosa, rispettivamente cattolici, ortodossi e musulmani. Il simbolo della violenza di quella guerra è diventato il massacro, nel 1995, di migliaia di musulmani a Srebrenica ad opera dei serbi dell’autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina.
I militari olandesi che, per conto dell’Onu, presidiavano la città non riuscirono a far nulla per impedire quello che poi l’Onu definì un genocidio. Una ventina di responsabili serbi, tra cui Radovan Karadžić, presidente della Repubblica serba di Bosnia, e Ratko Mladić, comandante dell’esercito serbo-bosniaco, furono poi condannati dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia.
Poi fu la volta del Kosovo, regione a maggioranza albanese, dove la repressione serba contro gli indipendentisti kosovari causò nel 1999 l’intervento della Nato, i cui aerei sottoposero la Serbia a numerosissimi bombardamenti, ai quali partecipò anche l’Italia per decisione del governo guidato da Massimo D’Alema. La capitolazione della Serbia portò il distacco del Kosovo, posto sotto la protezione dell’Onu. Il presidente serbo Slobodan Milošević fu processato dal tribunale dell’Aia, ma morì prima dell’emissione della sentenza, nel 2006.
Nel 2008 il Kosovo si è dichiarato Stato indipendente, riconosciuto da un centinaio di Paesi ma non dalla Serbia, sostenuta in questo dalla Russia, che con Belgrado ha rapporti storici. Malgrado l’opposizione dei nazionalisti radicali albanesi e serbi, che vorrebbero gli uni la Grande Albania e gli altri la Grande Serbia, i due governi stanno cercando di stabilizzare la situazione. Un importante stimolo a continuare il dialogo viene dalla UE, che ha posto la soluzione del problema kosovaro come condizione per l’associazione della Serbia all’Unione.
Anche gli Stati Uniti sono entrati nella questione, pianificando per lo scorso 27 giugno un incontro a Washington tra il presidente serbo Aleksandar Vučić e quello kosovaro Hashim Thaçi, ma quest’ultimo è stato messo sotto accusa dallo Special Prosecutor’s Office (Spo), organo indipendente con sede all’Aia, successore del tribunale internazionale già citato. In una specie di nemesi storica, Thaçi è accusato di crimini di guerra, che riguarderebbero più di cento omicidi, torture, persecuzioni e sparizioni di persone. Malgrado le accuse non siano state ancora formalizzate, ciò ha portato all’annullamento dell’incontro di Washington.
L’interventismo di Washington non sembrerebbe entusiasmare Bruxelles, che vede minacciato il suo ruolo di protagonista. Infatti, subito dopo l’annullamento dell’incontro programmato, Francia e Germania hanno lanciato la proposta di un nuovo incontro a Parigi in luglio, tanto più che dall’inizio del mese la Germania assumerà la presidenza del Consiglio dell’Ue.
In Kosovo, come in Siria e Libano, si confrontano direttamente Russia e Turchia, ma qui sul “portone di casa” europeo. Dei rapporti tra Mosca e Belgrado si è già detto, ma va messo in rilievo l’attivismo nell’area della Turchia, del tutto in linea con la politica neo-ottomana di Erdogan. Anche questo è un aspetto che non lascia del tutto tranquilli. Proprio in Kosovo, nella Piana dei Merli, venne combattuta nel giugno del 1389 una battaglia tra ottomani e una coalizione di eserciti cristiani guidata dal principe serbo Lazar. La sconfitta dei cristiani aprì la strada alla definitiva annessione della Serbia all’impero ottomano. Come i greci, i serbi riconquistarono la loro indipendenza con una lunga lotta contro gli ottomani e non vedono certamente di buon occhio il ritorno dell’influenza turca nella regione.
Può essere quindi ritenuto positivo l’intervento europeo nella questione kosovara, purché si riesca a delineare una strategia comune. Tuttavia, la proposta di Germania e Francia sembrerebbe una rivalsa verso Washington e, comunque, della diarchia piuttosto che dell’Unione nella sua globalità. L’Italia, pur impegnata con circa 600 soldati in Kosovo per conto dell’Onu, sembra non particolarmente interessata alla questione. Un discorso che si estende anche all’Albania, dove si fa sempre più sentire l’influenza turca, ben accetta forse ai musulmani ma che desta preoccupazione nelle altre componenti, a partire dai cristiani.
Forse il nostro governo dovrebbe far tesoro delle dichiarazioni di amicizia del presidente albanese quando ha portato gli aiuti del suo Paese in occasione dello scoppio della pandemia, e giocare un ruolo più attivo in Paesi così vicini a noi.