Il Governo in carica è alla ricerca spasmodica di trovare nuove risorse per rispondere ai fabbisogni di intervento a sostegno delle imprese e dell’occupazione. Ma non è questo l’unico problema. Le discussioni interne alla compagine governativa sulle politiche del lavoro ne rappresentano l’esempio più eclatante. Sugli interventi dedicati al sostegno al reddito dei lavoratori dipendenti e di quelli autonomi è stata impegnata la parte più rilevante delle risorse dei due decreti varati dal Governo per contenere gli effetti economici negativi delle misure adottate per limitare i contagi. Unitamente alla decisione di bloccare i licenziamenti sino al 17 agosto p.v., e di sospendere temporaneamente i vincoli introdotti con l’ex decreto dignità per l’utilizzo dei contratti a termine, hanno rappresentato l’asse principale delle politiche del lavoro. Misure che sono state criticate per la lentezza dei tempi di erogazione dei sussidi, ma sostanzialmente condivise dalle rappresentanze del mondo del lavoro.
Il nuovo decreto, previsto per il mese di luglio, dovrà fare i conti con gli effetti strutturali della recessione economica sulle organizzazioni produttive. Un tema sinora accuratamente eluso nell’ambito di una comunicazione istituzionale rivolta a rassicurare i cittadini riguardo la prospettiva di una transizione dolce verso una economia green, digitale e inclusiva. Diversamente, la transizione sarà dolorosa, destinata a selezionare le imprese e il mercato del lavoro. Con costi sociali che dovranno essere doverosamente affrontati.
Allo stato attuale prevale la tentazione di prolungare nel tempo il blocco dei licenziamenti e gli interventi straordinari delle varie casse integrazioni, consolidando una sorta di trattamenti salariali assistiti, in attesa di tempi migliori. Una scelta dettata da esigenze politiche e sociali comprensibili, ma destinata a generare conseguenze estremamente negative. Non sarà così. Ci attendono tempi duri, caratterizzati da una forte riorganizzazione delle imprese, dei settori produttivi e del mercato del lavoro. Indispensabili per mantenere livelli adeguati di competitività e una rapida ripresa dell’economia, ma che comporteranno anche rilevanti costi sociali che dovranno essere doverosamente considerati.
Allo stato attuale prevale nella compagine governativa la tentazione di prolungare nel tempo il blocco dei licenziamenti e gli interventi in corso delle casse integrazioni, consolidando di fatto una sorta di trattamenti salariali assistiti, in attesa di tempi migliori. Una scelta dettata da esigenze politiche e sociali comprensibili, ma destinata a generare conseguenze estremamente negative. L’ipotesi di un prolungamento generalizzato delle casse integrazioni comporterebbe un esborso mensile tra i 4 e i 5 miliardi di risorse pubbliche. I 20 miliardi di prestiti che potrebbero arrivare nel corso dei prossimi mesi dal fondo europeo Sure verrebbero esauriti nel giro di poco tempo. Per non trascurare i potenziali opportunismi e abusi che una misura di questo genere, non relazionata al blocco temporaneo delle attività produttive, disposto per via amministrativa, potrebbe ingenerare nel sistema delle imprese.
Ma ancora più rilevanti, e potenzialmente ingestibili, potrebbero essere le conseguenze sul piano economico e sociale. Per motivare l’affermazione, che può sembrare paradossale, è utile comprendere la natura delle trasformazioni produttive che ci attendono nel corso dei prossimi mesi. Una parte non marginale delle imprese, soprattutto di quelle piccolissime, e del lavoro autonomo, già in difficoltà nel periodo antecedente la pandemia, saranno costrette a chiudere i battenti. Altre imprese dovrebbero auspicabilmente nascere sulla spinta delle innovazioni tecnologiche e dei cambiamenti degli stili di vita e di consumo. In generale tutto il sistema produttivo dovrà fare i conti con la necessità di riposizionare i processi e i prodotti sui mercati interni e internazionali, con effetti che si trasferiranno sulla qualità e la quantità del lavoro. Questo dovrebbe avvenire anche per le pubbliche amministrazioni, chiamate ad assumere un ruolo trainante nell’evoluzione digitale dei servizi erogati ai cittadini.
Questi processi possono generare saldi positivi o negativi sulla crescita dell’economia e dell’occupazione in relazione all’intensità della spinta generata nel sistema in termini di innovazione, competitività, produttività e accesso alle opportunità lavorative. Anche in relazione alla qualità delle politiche economiche e del lavoro che verranno messe in campo e che dovrebbero avere il compito di favorire l’adeguamento delle competenze, facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, alleviare i costi sociali delle transizioni lavorative con sostegni al reddito ragionevoli. Prolungare nel tempo il blocco dei licenziamenti e l’accesso generalizzato alle casse integrazioni significherebbe scoraggiare l’adeguamento delle strutture produttive sovvenzionando di fatto posti di lavoro sostanzialmente esauriti. Provvedimenti destinati a scoraggiare le nuove assunzioni in una fase di grandi incertezze, a incentivare i comportamenti opportunistici da parte delle imprese e la convivenza dei sussidi con il lavoro sommerso. In una fase di grandi incertezze, l’eventuale ripristino dei vincoli per l’utilizzo dei contratti a termine introdotti con l’ex decreto dignità, e momentaneamente sospesi nei decreti recenti, pregiudicherebbe anche i margini di una possibile riattivazione di questi rapporti di lavoro.
Le principali vittime di queste opzioni di politica del lavoro sono un prima istanza le persone in cerca di occupazione, private del reddito e di qualsiasi opportunità di inserimento lavorativo. Una tendenza che è già in atto in relazione al mancato rinnovo di oltre 200 mila contratti a termine in scadenza ogni mese. Il rinvio dei potenziali licenziamenti comporterebbe nel tempo la creazione di una bolla ingestibile di potenziali licenziamenti e di disoccupati assistiti. Sul piano economico generale, ogni ritardo nell’adeguamento delle imprese comporterebbe una caduta dei livelli di produttività e di competitività con un effetto di spiazzamento delle nostre imprese in ambito internazionale.
Quali le alternative possibili? Il ripristino di criteri selettivi per l’utilizzo delle casse integrazioni in funzione di una realistica probabilità di riassorbire l’occupazione pregressa, massicci investimenti in formazione dei lavoratori occupati e dei disoccupati per adeguare le competenze, per rimanere occupati o per trovare un nuovo lavoro, il potenziamento dei servizi di orientamento al lavoro, e degli sgravi contributivi per favorire le assunzioni. Uno sforzo che richiede un impegno collettivo senza precedenti delle istituzioni, delle parti sociali, del sistema educativo e formativo, delle famiglie e delle persone con un approccio contributivo , non rivendicativo.
Esiste una concreta possibilità di affermare politiche di questa portata? Alle condizioni attuali, lecito dubitarne. La prospettiva di una mobilitazione di interventi che, a vario titolo, richiedono il concorso attivo di milioni di attori, nella veste di imprenditori, lavoratori, formatori, contrasta con gli orientamenti che prevalgono nelle rappresentanze politiche della maggioranza e dell’opposizione. E persino del mondo produttivo e sociale. Diversi nei contenuti ma convergenti nell’attribuire allo Stato il compito di intervenire direttamente nelle imprese in crisi e di sostenere i redditi dei lavoratori in un’ottica risarcitoria e assistenzialista.
Le conseguenze economiche della pandemia richiederebbero l’adozione di modelli di governance della crisi inediti e che prendano atto dell’impossibilità di gestire le criticità con soluzioni antiquate, in una logica autoreferenziale e con un ulteriore sovraccarico di debito pubblico. Il nostro è un Paese ricco di risorse che potrebbero essere mobilitate per finalità condivise. Ma, a quanto sembra, sono in pochi a esserne convinti.