L’Istat ha pubblicato i dati sull’andamento del mercato del lavoro riferiti al mese di maggio. Anche se a ritmo meno sostenuto abbiamo il proseguimento del trend già registrato nel mese di aprile. I comportamenti differenti possono essere fatti risalire all’allentamento del lockdown che abbiamo avuto proprio a partire da maggio. Parte di chi si era ritirato dal mercato (importante aumento degli inattivi in aprile) torna a cercare lavoro vista la riapertura, ancora parziale, delle attività economiche.
L’occupazione anche a maggio scende (-0,4%, pari a 84 mila unità), e anche il tasso di occupazione complessivo che passa al 57,6% (-0,2%), segnando un nuovo minimo. Se guardiamo i dati a un anno, maggio 2020 registra rispetto a maggio 2019 un calo dell’occupazione del 2,6% pari a 613 mila unità e un calo del tasso di occupazione di 1,5 punti percentuali.
Come già anticipato, la fine del lockdown e la ripresa parziale delle attività hanno messo in moto i flussi del mercato del lavoro. A fronte di un calo degli occupati in maggio vi è un aumento di quanti cercano lavoro con una crescita del 18,9% nel mese pari a 307 mila unità. Il tasso di disoccupazione risale al 7,8% e tra i giovani sale di due punti percentuali arrivando al 23,5%. Gli inattivi calano dell’1,6%, pari a 229 mila unità, e il tasso di inattività torna al 37,3%, con un calo dello 0,6%.
I movimenti del mercato del lavoro registrati a maggio hanno coinvolto in modo generalizzato tutte le categorie di lavoratori, solo il calo degli occupati registra una marcata maggioranza fra le donne (-0,7%) rispetto agli uomini (-0,1%). Proprio la ripresa parziale delle attività attenua le differenze fra lavoratori dipendenti e autonomi e fra dipendenti con contratti a tempo indeterminato e determinato. I dati di confronto riferiti però ai dodici mesi mettono in luce che il calo degli occupati è determinato da lavoratori autonomi (-204 mila) e lavoratori a tempo determinato (-592 mila). Nell’anno sono cresciuti invece i lavoratori a tempo indeterminato e quelli con più di 50 anni, attenuando così la caduta complessiva dell’occupazione.
I dati di maggio ci confermano quindi che l’effetto della pandemia sul mercato del lavoro ha per ora creato un frattura fra tutelati e non tutelati che pone nuovi problemi al nostro modello di welfare. La scelta di utilizzare come ammortizzatore sociale la cassa integrazione, anche se estesa a tutte le imprese, accompagnata dalla norma di divieto di procedere a licenziamenti per i periodi di durata della cassa ha scaricato sui lavoratori esclusi da tale copertura i costi immediati della crisi. Così chi già stava in fondo alle tutele del mercato del lavoro (somministrati, contratti a termine, stagisti e tirocinanti) è stato lasciato a casa senza nessun sostegno al reddito, né con servizi di ricollocazione.
La frattura fra lavoratori tutelati e non, che si era cercato di chiudere (o almeno attenuare) con le riforme degli ammortizzatori sociali, l’avvio delle politiche attive del lavoro per tutti e con una forma contrattuale a tempo indeterminato per tutti, è stata riaperta con i provvedimenti presi nel periodo di lockdown anche grazie alla azione distruttiva di posti di lavoro a tutela operata dai provvedimenti introdotti dal decreto dignità del Governo giallo-verde.
Il tema è oggi all’ordine del giorno perché le forze di governo, ma anche quelle di opposizione, appaiono divise su come affrontare i prossimi mesi e soprattutto la ripresa autunnale. Per alcune forze la scelta migliore è proseguire ancora con Cig e divieti di licenziamento. Per altri invece il tema è quello di uscire dalle leggi emergenziali e creare strumenti per affrontare la crisi industriale e settoriali che si presenteranno.
Iniziano peraltro a essere pubblicati ricerche e stime econometriche sul tema e non fanno che confermare le regole di basi dell’economia. In particolare, il prolungamento di norme che bloccano il regolare funzionamento delle leggi dell’offerta e della domanda creano diseconomie che vanno a scapito della produttività del sistema. Difendere il rapporto di lavoro con aziende che non hanno più mercato e versano in stato di insolvibilità comporta uno spreco di risorse (la Cig costa complessivamente 4 miliardi al mese) e contribuisce a tenere basso il tasso di ripresa della crescita economica. Come visto comporta anche un approfondirsi delle differenze fra tutelati e non fra i lavoratori, penalizzando in particolare le fasce più deboli di giovani e donne.
Molto più opportuno sarebbe un piano di intervento che preveda la tutela di tutti i lavoratori non sul posto di lavoro, ma per il posto di lavoro. Otterremmo un sistema teso a migliorare l’utilizzo delle risorse umane una spinta a migliorare efficienza del mercato del lavoro e incremento della produttività complessiva.
Con un risparmio sulla spesa complessiva otterremmo di estendere a tutti i lavoratori tutele di reddito e soprattutto politiche attive sulla ricollocazione lavorativa. Daremmo fiato alle imprese che devono diminuire la loro quota di mercato, ma risposte più efficienti alle filiere produttive che assumeranno nuovi lavoratori perché destinate a ripartire per prime e a crescere.
Per farlo serve chiarezza politica nello scegliere lavoro e sviluppo e abbandonare la politica dei sussidi. E anche un’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro libera di professori del Mississippi e dai disastri della gestione servizi passivi dell’Inps.