“Ho il timore, per la presenza del Covid, che la riapertura delle scuole non potrà avvenire nello stesso modo dappertutto, ma auspico fortemente e mi auguro che ci sia una mobilitazione in tal senso da parte di tutto il mondo della scuola perché comunque apra il 1° settembre per tutti, con la flessibilità necessaria e la massima cura per gli standard dei livelli essenziali a livello nazionale”. La sociologa Chiara Saraceno negli ultimi mesi ha pubblicato diversi articoli in cui ha stigmatizzato la scarsa considerazione in cui la scuola, in Italia, viene considerata dal governo e dalla politica, ma anche dalla società intera, tanto da arrivare a sottoscrivere un appello al premier Conte – “Nel nome dei ragazzi” – per la riapertura della scuola, dopo un lungo lockdown da lei paragonato a un “blockout educativo”.
“Lo scandalo della disattenzione sulla scuola non sembra avere limite”. Come se la spiega questa trascuratezza?
C’è una sostanziale invisibilità, marginalità e disattenzione per i bambini, i ragazzi e i giovani, ma questa in parte è responsabilità anche degli insegnanti.
Perché?
La scuola sembra sempre un problema di contratti, di numero dei docenti, di orari e non è mai un problema di apprendimento e di diritti educativi dei ragazzi, che sono il cuore della scuola. Nessuno ne parla, tanto meno i sindacati. Tant’è vero che siamo un paese che continua a lasciar correre tassi incredibili di dispersione scolastica, seppur concentrati territorialmente e in certi gruppi sociali, e tassi incredibili di povertà educativa. Anche la legge sulla Buona Scuola non diceva nulla sulla dispersione scolastica e sul contrasto alle disuguaglianze educative. E con il lockdown tutto ciò è diventato molto visibile, è stato come chiudere i ragazzi in casa buttando via la chiave.
Lei ha firmato a metà giugno un appello al premier Conte per contrastare l’inaccettabile disattenzione del governo verso i ragazzi e i giovani. Che prezzo rischiamo di pagare?
Premesso che quell’appello dimostra quanto il problema sia molto sentito, perché è stato preparato e sottoscritto da nove reti che grosso modo coprono più di 400 associazioni, il primo rischio che corriamo è un aumento vistoso della già troppo elevata dispersione scolastica. Il 30% degli scolari, senza parlare dei più piccoli nella scuola dell’infanzia, come ammette lo stesso ministero non ha avuto alcuna didattica a distanza e un altro 20% l’ha avuta in modo erratico, parziale, casuale. Il 30% è una percentuale che dovrebbe far tremare i polsi non solo alla ministra Azzolina, ma a tutti i presidi, a tutti gli insegnanti. È un numero che non fa dormire.
E invece?
Invece tutto è stato rimandato a settembre e si è avuto pure il coraggio di dire che dovranno recuperare i debiti! Ma scherziamo? Ci sarà stato senz’altro qualche lavativo, ma con il lockdown c’è un problema di recupero dei crediti scolastici, non dei debiti. Come vede, già il linguaggio la dice lunga, come se la responsabilità fosse dei ragazzi. Ricordiamoci, oltre tutto, che questo 30% non è distribuito omogeneamente in tutte le classi sociali: a Torino, dove abito, un ragazzo su due nelle periferie più povere si è perso.
Con quali effetti?
L’aumento della dispersione scolastica significa da un lato perdita di fiducia e di motivazione; e dall’altro aumento dei Neet e delle disparità sociali. Per questo abbiamo chiesto al ministro che si facesse qualcosa d’estate, ma non abbiamo avuto risposte.
Il motivo?
I 33 giorni di ferie degli insegnanti. Ma in una situazione d’emergenza come questa si può dire: il calendario scolastico è sacro, è intoccabile? L’unica cosa che si è tenuta ferma è il calendario scolastico, tutto il resto è stato stravolto.
Che cosa si sarebbe potuto fare visto che in alcune regioni le scuole sono state chiuse già a fine febbraio?
Capisco che la ministra Azzolina aveva le mani legate dal Comitato tecnico scientifico, però ci si poteva pensare per tempo e ci si poteva attrezzare per recuperare i ragazzi che si sono nel frattempo persi, andandoli a cercare e ad aiutare, in accordo con la società civile, come sta accadendo in alcune realtà. Invece ci sono anche direzioni generali che faticano a dare i nominativi nascondendosi dietro la scusa della privacy o casi in cui è stata chiesta la possibilità di incontrarsi nei cortili delle scuole ma si è opposto un no… La ministra avrebbe dovuto mandare una direttiva, sapendo di aver perso il 30% degli studenti: pancia a terra, senza aspettare settembre, sperando che ricompaiano.
A proposito del ritorno in classe a settembre, lei ha criticato le linee guida della ministra Azzolina, la sua “intollerabile sciatteria verso le giovani generazioni”. Che cosa non le piace di quelle linee guida? Si potevano preparare meglio?
In parte poi sono state corrette, ma la prima formulazione era sostanzialmente un “fate voi”. È vero che c’è un gioco delle parti nel fare lo scaricabarile: da una parte si rivendica l’autonomia e poi si dice che tocca al ministero dare delle indicazioni. Ci sono però incombenze che andavano affrontate ben prima.
Quali?
Sapevamo da tempo del distanziamento, anche se si è discusso se statico, dinamico o da rima buccale, e che questo avrebbe richiesto più aule, più spazi, ma non poteva essere richiesto già da maggio? Perché ci si è ridotti adesso a dover quantificare dall’oggi al domani di quante aule ogni scuola ha bisogno? Un ritardo sistematico. Persino i parchi, i bar sono stati riaperti. E le scuole?
L’obiezione era: classi molto frequentate, rischio di assembramento alla mattina quando i genitori accompagnano i figli a scuola…
Ci sono questi aspetti da considerare? Bene, lo sappiamo da tempo e si è deciso di non riaprire le scuole fino a settembre, ma nel frattempo ci si attrezza, non si aspetta a far partire i lavori adesso. Perché dell’anagrafe o delle planimetrie ci si occupa adesso? Che cosa si è fatto in questi mesi?
In quell’appello si chiedeva di investire il 15% delle risorse destinate alla ripresa a favore della scuola. Il governo ha promesso 3 miliardi di euro. Manterrà la promessa?
Conte ci ha detto: il problema delle risorse non esiste, le risorse ci saranno, perché lui pensa al Recovery fund.
E dove dovrebbero essere investiti?
Il governo deve pensare un piano organico, non serve a nulla mettere un tot qui e un tot là. Un piano organico significa che le risorse non devono andare per frammenti né a pioggia, ma sulla base dell’individuazione di priorità.
Per esempio?
Non solo in base al numero degli studenti, ma anche là dove ci sono maggiori carenze di strutture o attrezzature didattiche. Altrimenti si sprecano i soldi.
Il governo potrebbe prorogare fino al 31 dicembre lo stato d’emergenza. Il lockdown è stato per molti ragazzi un “blackout educativo”. Un secondo lockdown?
Lo abbiamo fatto presente alla ministra che devono avere subito un piano B in caso di seconda ondata della pandemia da far scattare il giorno dopo il lockdown, che probabilmente non sarà più generalizzato, ma selettivo. Un piano che permetta di switchare subito sulla didattica a distanza, con standard chiari e nazionali, e sostenendo coloro che sono in difficoltà. Non è solo questione di dare i tablet, ma anche la possibilità di essere affiancati e accompagnati, magari utilizzando l’appoggio della società civile.
E la Azzolina?
Ci ha risposto che lo stanno preparando.
Non ha la sensazione che si faccia strada, tra la paura dei nuovi focolai e le elezioni regionali, con i seggi elettorali che non possono essere allestiti nelle caserme o negli uffici postali, per ora come un sommesso non-detto l’idea che la scuola potrebbe non riaprire a settembre?
La chiusura delle scuole per le elezioni va assolutamente impedita, che trovino un’altra soluzione. Che per una volta la scuola venga per prima. Perché le poste non possono fare per due giorni interruzione di pubblico servizio? Perché le caserme non vanno bene?
Le caserme sono inutilizzabili per legge…
Ma quale legge? Questo è un paese che è stato chiuso da un giorno all’altro per decreto… È possibile che non si riescano a cambiare queste norme? Il fatto è che non si vuole. Mai, e tanto più stavolta, si dovrebbe chiudere una scuola per elezioni, è una cosa perversa che avviene solo in Italia. Se a settembre non si riparte, vogliamo suicidarci come paese? Vogliamo definitivamente buttare a mare un’intera generazione? Che magari non possa aprire ovunque in presenza, per qualche focolaio sparso, può essere, ma dobbiamo comunque essere pronti a intraprendere modalità diverse. Consapevoli che il Covid è tra noi per rimanerci e che dobbiamo vivere con prudenza, ma la scuola deve aprire. Solo le scuole sono fonte di contagi?
La scuola soffre da anni di problemi endemici, basti pensare all’annosa questione dei precari. Come risolverla?
Bisogna programmare per tempo, osservando la curva demografica in anticipo. E poi bisogna contemperare i diritti legittimi degli insegnanti a lavorare vicino a casa, ma senza la pretesa che tutti i posti di lavoro siano vicini a casa, specie nelle emergenze.
Secondo lei, l’Italia vive un’emergenza educativa?
Assolutamente sì.
Da dove iniziare per cercare di superarla?
Mettere al centro della scuola il contrasto alle disuguaglianze educative e alla povertà educativa. Occorre investire nella scuola e nella formazione degli insegnanti, pagandoli meglio anche là dove lavorano in contesti difficili. Infine, facendo alleanze organiche con la società civile, attraverso Patti educativi territoriali non estemporanei. La scuola non è una spesa, è un investimento sul futuro.
(Marco Biscella)