Da molte parti si scaldano i motori per prepararsi alla ripartenza autunnale. Ogni Paese europeo, come tutti gli organismi economici, incomincia a produrre dati per capire i danni provocati dalla fase acuta dell’epidemia e individuare le migliori misure economiche che permettano di avere una ripresa veloce, a V, come auspicato da molti.
Per una prima analisi della nostra situazione nazionale ci si può rifare alla relazione fatta dal Governatore della Banca d’Italia che ha indicato lucidamente i fattori sociali indispensabili per sostenere una fase di forti investimenti e di correttivi per gli storici ritardi della nostra economia. In questi giorni la Commissione europea ha presentato le sue previsioni. Il Pil europeo scenderà dell’8,1% e quello italiano dell’11,2%, il dato peggiore nell’eurozona. La previsione per il 2021 per il nostro Paese è di una risalita di 6,1 punti e quindi si dovrà aspettare un altro anno per tornare ai livelli del 2019.
Per quanto riguarda il lavoro abbiamo visto dai dati Istat che si sono persi 500 mila posti nei due mesi di blocco dell’economia e si prevede che altri 700 mila potrebbero sparire entro fine anno. È quanto si può dedurre dai dati resi pubblici dell’Ocse che ha rilevato, per quanto attiene il nostro Paese, un calo delle ore di lavoro pari al 28%. Da qui la previsione del calo dell’occupazione complessiva di almeno tre punti e la risalita del tasso di disoccupazione a circa il 13%. Questi dati ci dicono che i buoni risultati della crescita occupazionale avuta dopo l’introduzione delle norme del Jobs Act (oltre un milione di nuovi posti di lavoro) saranno azzerati. La previsione è che senza misure straordinarie occorreranno più di due anni di crescita dell’economia per tornare al tasso di occupazione precedente.
Se i dati della Commissione europea e dell’Ocse sono almeno tendenzialmente corretti significa che il futuro del lavoro del nostro Paese non sarà all’insegna dell'”andrà tutto bene”. I dieci giorni di incontri del presidente del Consiglio a villa Pamphili sono serviti più a rimettere in discussione i piani e progetti fatti preparare dalle commissioni incaricate (vedi commissione Colao) che a predisporre un reale progetto di rinascita per l’economia del Paese.
I nostri statisti, quelli che tutto il mondo ci invidia, sono riusciti per ora a ignorare completamente il tema della politica del lavoro. Certo nel decreto semplificazioni mancano semplificazioni liberalizzatrici dei mercati (vedi proroga delle concessioni balneari), ma vi è almeno l’accelerazione di ben 130 grandi cantieri che dovrebbero partire entro l’anno. Ma, come indicato da tutte le previsioni economiche, ciò non basterà per tornare velocemente ai tassi di occupazione pre-crisi da Covid. Anzi, il Governo ha fatto sparire dal testo di conversione legislativa del decreto “Rilancio” la proroga della sospensione del “causalone” per i contratti a tempo determinato. Era la richiesta minima avanzata dal progetto Colao, così come dalle associazioni imprenditoriali e con l’assenso sindacale. Niente, ha vinto ancora l’ideologia bugiarda di chi vuole livellare il lavoro e produce nuova disoccupazione.
Come reso evidente dagli ultimi dati Istat, le scelte attualmente fatte in tema di lavoro, cassa integrazione estesa e blocco dei licenziamenti hanno già allargato il solco fra garantiti e non garantiti. La sospensione delle causali per i contratti a termine estendeva un po’ di garanzie anche a questi lavoratori. Non c’è verso di farlo capire ai nuovi esperti di lavoro che dirigono il ministero ora o l’hanno diretto nel periodo giallo-verde. Se a ciò aggiungiamo che almeno due milioni di lavoratori sono ancora in attesa della cassa integrazione e migliaia di partite Iva e autonomi non hanno ricevuto una o entrambe le mensilità di 600 euro promesse in aprile, vediamo il quadro di un Governo che non vuole produrre niente a favore dei lavoratori.
Decreti dignità e reddito di cittadinanza, presentati come misure decisive per avviare nuove politiche del lavoro, hanno fallito su tutta la linea. Chi ha avuto accesso al reddito di cittadinanza è una categoria di povertà che sfugge almeno per il 70% dei contattati a ogni condizionalità. Non viene accettato né di inserirsi in percorsi di ricerca di lavoro ma neanche di assistenza sociale. Bisogna tornare a distinguere le misure contro la povertà dalle politiche attive del lavoro. Il fatto che entrambe richiedano misure di sostegno al reddito delle persone non le rende uguali, né rende simili i bisogni delle persone coinvolte.
I populisti, gialli o verdi non capiscono che sviluppo economico e lavoro marciano assieme e che oggi favorire la distribuzione di sussidi (siano pensioni regalate come quota 100 o redditi integrativi) è impoverire il futuro del Paese.
Stupisce anche il silenzio di chi, partito politico o movimento sindacale, dovrebbe rappresentare gli interessi dei lavoratori. Per movimenti nati intorno alle parole d’ordine di “lotta e lavoro”, “noi vivremo di lavoro o pugnando si morrà”, questa assenza di proposte, di progetti di riforme, di piani per lo sviluppo e il lavoro (come si fece nel secondo dopoguerra) da sviluppare assieme ai rappresentanti dalle imprese è il segno che la bussola si è persa. Vi sono molte forze sociali che non si vogliono arrendere e ogni giorno producono idee e proposte per una rinascita della nostra economia. Speriamo trovino uditori attenti e che vi siano nuovi programmi per la ripresa autunnale.