Attenzione. Sotto la pesante coltre della scontentezza che caratterizza le Linee guida del Miur per la riapertura delle scuole a settembre viaggiano idee, giudizi ed esperienze che per il momento non bucano la crosta, ma che spiegano la delusione con cui in un certo ambito è stata accolta la pianificazione governativa.
La categoria che fa da perno e attorno alla quale ruota tutta la questione è quella riguardante i “patti educativi di comunità” proposti alla ministra Azzolina dal Comitato degli esperti istituito presso Viale Trastevere, facente capo al prof. Patrizio Bianchi, per indicare una qualche prospettiva di attività didattica in situazione di emergenza sanitaria, “nell’ottica del miglioramento del sistema di istruzione e formazione nazionale” (così si esprimeva il testo del mandato istitutivo).
Nelle Linee guida, adottate con decreto del 26 giugno, i “patti di comunità” sono ridotti alla stipula di accordi con gli enti locali, le istituzioni pubbliche e private e le realtà del terzo settore per favorire la messa a disposizione di spazi (parchi, teatri, biblioteche, archivi, cinema e musei) per potervi svolgere attività didattiche “complementari a quelle tradizionali”. In altri termini, il 15% degli alunni che non potranno accedere alle classi a causa delle misure di distanziamento, andrà, magari a rotazione, al parco, al cinema, in pinacoteca, ecc.
Ma tutto questo non si faceva anche prima? Pare di sì: chi non ha visto scolaresche talvolta caracollanti seguire i prof in qualche museo o mostra di pittura? Il fatto è che il Miur funziona come re Mida (quello che trasformava in oro tutto ciò che toccava) al contrario. Così è accaduto che l’autonomia delle istituzioni scolastiche sia concepita (nelle Linee guida) come marchingegno per modulare o rimodulare le classi e la didattica, senza accenni alla reale autonomia che dovrebbe comportare la chiamata diretta del personale di cui le scuole hanno bisogno.
Ed è ancora accaduto, appunto, che i “patti” siano stati stravolti. Il Comitato degli esperti (decadrà alla fine di luglio 2020) aveva portato all’attenzione della ministra, del governo e dei parlamentari (vedi audizione alla Commissione cultura della Camera del 9 giugno) i patti educativi di comunità secondo una logica totalmente innovativa (discutibile: ma è appunto su questo che è mancato l’approfondimento). I patti di comunità dovrebbero veicolare, infatti, la riprogettazione dell’offerta didattica delle discipline che costituiscono il curriculum, aprendo la scuola al territorio. Il territorio in questo caso fungerebbe da “villaggio” necessario per educare un figlio, come nel famoso proverbio africano. Il villaggio, nel proverbio, si sostituisce alla famiglia che manca o non è in grado di educare. Nei patti educativi il territorio si affiancherebbe alla scuola o addirittura la dovrebbe rigenerare.
In questo senso, Bianchi ha dichiarato ed eccepito al Corriere della Sera: “Abbiamo proposto i patti territoriali non per supplire alla mancanza di insegnanti o per trovare spazi aggiuntivi, ma per integrare il lavoro fatto a scuola con esperienze legate alla comunità”. La formula del patto educativo non nasce oggi, ma è da qualche tempo utilizzata nelle situazioni di emergenza educativa, come emerge da alcuni pezzi dedicati al tema dalla rivista Vita. Il patto è un’alleanza territoriale che implica la scuola fuori della scuola. Per capire ancora meglio, si può fare riferimento alla serie di esempi ed esperienze, suggeriti sempre da Vita, raccolti da Percorsiconibambini.it, un network di progetti selezionati dall’impresa sociale “Con i bambini”, nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà minorile. I progetti mostrano le diverse forme possibili dell’intervento del sociale in ambito educativo e didattico: realtà del sociale come fondazioni, cooperative, oratori, squadre sportive, ecc. che intervengono a coprire un certo segmento del percorso di istruzione (l’arte, lo sport, il tempo libero). I percorsi mostrano che il sociale disponibile a mobilitarsi nei confronti della scuola non è solo quello pubblico, ma anche, e forse soprattutto, quello privato. Sia come terzo settore (solitamente maltrattato dal governo), sia come fondazioni bancarie (il fondo di Percorsiconibambini è partecipato dalle Casse di Risparmio).
In sintesi, i patti di comunità proposti dal Comitato Bianchi non sono i patti della ministra Azzolina. Ciò posto, varrebbe la pena comunque discuterne perché i suddetti “patti” nella versione originale possono nascondere essi stessi un equivoco. Quale? Che l’attività scolastica, e con essa quella educativa, riguardi al più l’attivazione delle menti e non piuttosto dell’integralità delle dimensioni della persona (ricerca del vero, del bene, del bello) che richiede la proposta di un significato trasmesso da adulto ad allievo (termine desueto, ma per intenderci!).
I patti possono corrispondere al villaggio che interviene nell’emergenza, ma infine il giovane dovrà trovare un punto stabile, una relazione presso la quale accasarsi. In caso contrario il villaggio/patto di comunità rischia di essere l’ennesimo escamotage (per non dire tampone!).