A voler tentare di sorriderci, l’annuncio di proroga dello stato d’emergenza per altri sei mesi – fatto, tra l’altro en passant tra una battuta sul Mose e una sul ponte di Genova – mi ricorda la barzelletta su quella ragazza che a precisa domanda: “Sei incinta?” rispondeva: “Un pochino”. Ma qui c’è poco da ridere.
Nella crisi determinata dal Coronavirus abbiamo superato la fase uno, quella del lockdown e del picco epidemico, siamo approdati alla fase due, quella della riapertura, e stiamo avviando, con molta difficoltà, la fase tre, quella della ripartenza della vita economica e sociale, quella della riapertura delle scuole.
Il paese sta faticosamente tentando di tornare alla normalità, non c’è più l’emergenza sanitaria di fine febbraio, le terapie intensive sono vuote e il numero dei contagiati cala di giorno in giorno. I nuovi casi sono meno virulenti, i medici e le strutture di controllo del territorio sanno come affrontare i nuovi focolai. Certo, bisogna continuare a mettersi la mascherina nei luoghi chiusi, non fare assembramenti, lavarsi le mani, rispettare la distanza (permettetemi al proposito di aprire una parentesi: si è parlato e si continua a parlare di “distanziamento sociale”, e il linguaggio tradisce un modo di pensare che io considero deleterio per la vita del paese. Il distanziamento che dobbiamo avere è solo ed esclusivamente un distanziamento fisico. Questo è invece il momento della massima prossimità sociale, della vicinanza, della coesione, della comprensione dei problemi dell’altro, dell’aiuto reciproco nei tentatici di soluzione).
Comunque non siamo più in emergenza sanitaria, nonostante gli allarmi che ogni giorno vengono rilanciati dalle prime pagine dei giornali e dalle tv. Il mio non è ottimismo a oltranza, è un approccio ragionevole alla situazione che tiene conto dei dati di fatto, tutti, non solo quello della temuta “seconda ondata”.
E se non c’è l’emergenza, non c’è nessuna ragione per la proroga dello stato d’emergenza. L’ha spiegato bene, anche tecnicamente, il professor Sabino Cassese sul Corriere della Sera: “Manca il presupposto della proroga: non basta che vi sia il timore o la previsione di un evento calamitoso. Occorre che vi sia una condizione attuale di emergenza”. E giustamente aggiungeva: “Perché prorogare lo stato di eccezione, se è possibile domani, qualora se ne verificasse la necessità, riunire il Consiglio dei ministri e provvedere?”.
Lo stato di emergenza assegna di fatto pieni poteri al presidente del Consiglio e l’esperienza di questi mesi, soprattutto l’inconcludenza degli annunci nella fase due – faremo, semplificheremo, finanzieremo… un continuo futuro senza presente -, il procedere per decreti del presidente del Consiglio (Dpcm) gravemente limitanti la libertà delle persone e delle imprese, le facili “ricette” presentate come risolutive e che poi necessitavano di continue spiegazioni e aggiornamenti (basti ricordare il balletto comico sui “congiunti”), insomma concentrare in una sola persona decisioni gravose per la vita di tutti non solo è pericoloso, ma anche inevitabilmente inefficiente. Perpetuare una sensazione di paura, questo si ottiene con l’annuncio della proroga dello stato di emergenza, blocca ulteriormente l’iniziativa di cui invece ha bisogno il paese. Il virus – che ha permeato di sé non solo il fisico di tanti italiani, ma anche l’economia, la società, il mondo dell’educazione, quello della solidarietà, tutta la vita pubblica – non si combatte alimentando il timore, ma con la responsabilità, di ognuno e di tutti insieme.
La storia del nostro paese dimostra che dopo catastrofi e distruzioni (dalla guerra ai terremoti al terrorismo) si riparte se si riparte insieme, coinvolgendo, già nella fase d’emergenza, tutte le forze politiche e sociali non in inutili party in ville romane, ma nell’opera fattiva di ricostruzione della vita economica e sociale. Prolungare nel tempo la cultura emergenziale, come purtroppo abbiamo fatto sia con il terrorismo sia con, ad esempio, il terremoto del Belice, conduce sulla strada dell’immobilismo e dell’assistenzialismo da una parte, e dall’altra – penso a certe situazioni nelle carceri – a vere e proprie ingiustizie.
Sempre Cassese scriveva che “il diritto eccezionale non può diventare la regola, […] non è fisiologico governare con mezzi eccezionali. Questi possono produrre conseguenze negative non solo per la società e per l’economia, creando tensioni nella prima e bloccando la seconda, ma anche per l’equilibrio dei poteri, mettendo tra le quinte (ancor più di quanto non accada già oggi) il Parlamento e oscurando il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, al cui controllo sono sottratti gli atti dettati dall’emergenza”.
Condivido totalmente: il Parlamento non è il luogo della ratifica (quando lo si fa votare e spesso negli ultimi mesi lo si è trattato come semplice auditore) delle decisioni del presidente del Consiglio, il Parlamento è il luogo della rappresentanza della gente, dei suoi problemi, delle sue istanze e del confronto per trovare le proposte di soluzione. A meno che si ritenga che la democrazia è un lusso che non possiamo più permetterci. Io non mi rassegno.