Capita spesso che il sindaco di Milano Giuseppe Sala si metta nei guai con qualche dichiarazione “politicamente scorretta”. Il che non vuol dire che abbia avuto sempre torto del tutto, ma che i problemi sollevati suscitano polemiche che, prima o poi, inducono Sala a precisare il suo pensiero se non ad ammettere di avere sbagliato. Nel mondo culturale-politico a cui il primo cittadino meneghino appartiene ci sono dei veri e propri dogmi che reggono la filiera di intere formazioni politiche. Guai a parlare di ripristino delle cosiddette zone salariali. Neppure la Lega (infatti non si riscontano prese di posizione di Matteo Salvini) osa più intromettersi in questo vespaio da quando ha deciso di trasformarsi in una forza nazionalista, impegnata nella conquista delle amministrazioni meridionali. Così sulle dichiarazioni di Sala (“È chiaro che se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso”) sono piovute critiche da tutte le parti. A partire ovviamente dai politici del Sud, guidati dal ministro della Coesione sociale Giuseppe Provenzano il quale ha replicato: “Come facciamo a valutare la produttività di un lavoratore di Scampia oppure di un quartiere di Palermo, senza servizi? Questo lavoratore dovrebbe essere pagato il doppio per la socialità del suo lavoro”.
La questione sollevata da Giuseppe Sala, tuttavia, non va respinta a priori. A porsela dovrebbero essere i dirigenti, i politici e gli amministratori meridionali, perché il Sud non ha bisogno di eguaglianze forzate e ideologiche che, alla prova dei fatti, diventano insostenibili per quell’economia. Il fatto è che Sala sbaglia a limitare il problema al solo settore pubblico (dove non è sbagliata un’uniformità di trattamento) esulando dal tema vero: le retribuzioni nei settori che operano nel mercato.
La strada da seguire, però, non è quella di ripercorrere l’esperienza delle zone, che è morta e sepolta, e che, a dire il vero non prevedeva una netta demarcazione tra il Nord e il Sud, ma piuttosto dei raggruppamenti di province sulla base delle loro dimensioni, tanto che, in alcune “zone” erano incluse sia città settentrionali che meridionali, anche se toccava a quest’ultime di essere classificate in prevalenza nelle “zone” più basse. Quando cessò questa esperienza? Immediatamente prima dell'”autunno caldo”, tra la fine del 1968 e i primi mesi del 1969 furono stipulati – dapprima con l’Intersind-Asap, l’associazione rappresentativa delle aziende a partecipazione statale, poi con la Confindustria – accordi per l’abolizione delle zone e delle differenziazioni territoriali. Da allora i minimi tabellari previsti dai contratti nazionali di categoria anche dei settori privati sono uniformi su tutto il territorio nazionale.
Che cosa erano le zone salariali? Facciamo un po’ di storia. Nel 1954 (il 12 giugno) venne stipulato l’accordo sul “conglobamento” retributivo, allo scopo di riordinare la struttura della retribuzione e inquadrare nella “paga base” una serie di voci salariali che si erano venute accavallando nel tempo, sovente attraverso la contrattazione interconfederale. Tale accordo fu molto importante per quanto riguarda l’evoluzione degli assetti negoziali perché aprì la strada alla contrattazione di categoria. Le confederazioni – che fino a quel momento avevano svolto un ruolo negoziale prevalente – non vennero private del tutto della competenza in materia salariale che però fu limitata alla definizione dei rapporti differenziali tra le differenti qualifiche (i cosiddetti parametri) e tra le 14 zone (in una logica decrescente) in cui venne diviso il territorio nazionale.
I nuovi minimi furono determinati secondo tale criterio, raggruppando i vari comparti industriali in tre gruppi, i quali però furono ben presto superati dalla contrattazione di categoria che condusse ogni branca industriale ad avere le proprie tabelle, organizzate nel rispetto dei rapporti differenziali per qualifiche e per territorio, come stabilito nell’accordo del 1954. Basti pensare che questo processo consentì ai metalmeccanici, nel 1956, di rinnovare il contratto dopo una “pausa” che durava dal 1948 (bisognerebbe meditare su questi avvenimenti!). Poi, nel 1961, la differenziazione in 14 zone non sembrò ulteriormente giustificabile di fronte alle trasformazioni del Paese, della sua economia e del mercato del lavoro. Le zone furono dimezzate (accordo interconfederale 2 agosto 1961) e fu prevista una diminuzione dello scarto tra la prima e l’ultima dal 29% al 20%.
Prima di quell’evento (il 16 luglio del 1960) era intervenuto l’accordo sulla parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici che in precedenza avevano dei trattamenti differenziati a scapito delle donne. Unificate le retribuzioni, restarono differenti gli standard dello sviluppo. Per ripristinare l’equilibrio le imprese meridionali si avvalsero degli sgravi fiscali e contributivi (a riduzione strutturale del costo del lavoro) a carico dell’intervento straordinario (l’ex Cassa del Mezzogiorno). Quando, nei primi anni ’90 le regole europee resero impraticabili gli aiuti di Stato, la struttura produttiva del Sud restò nelle classiche “braghe di tela”, costretta a cercare riparo nell’economia sommersa, maledetta e combattuta a parole ma tollerata nei fatti.
Così, se le “zone salariali” costituiscono un capitolo chiuso della storia del Paese, la questione dei differenziali retributivi, nei settori privati, è un problema che si ripresenta, carsicamente, in forme nuove e differenti. Ma per farvi fronte sarebbe più adeguato l’uso delle “clausole di deroga o di uscita” previste (o da prevedere) nei contratti nazionali e dall’articolo 8 della legge n. 148 del 2010. Di che cosa si tratta? La norma consentirebbe alle parti sociali di derogare, mediante la contrattazione di prossimità (ovvero quella più vicina all’impresa) dalle normative uniformi, di legge e di contratto, per valorizzare, invece, le effettive differenze, assumendosi anche la responsabilità di promuovere flessibilità organizzative e produttive.
A dare assicurazioni contro il possibile dumping sociale a opera di “sindacati gialli”, a suo tempo fu meglio chiarito – rispetto al testo iniziale – l’aspetto della rappresentanza e rappresentatività sindacale. In proposito, il comma 1 dispone che i contratti collettivi di lavoro aziendali o territoriali, sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda in base alla legge e agli accordi confederali vigenti (compreso, pertanto, quello del 28 giugno 2011), potevano realizzare specifiche intese, con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario di rappresentanza sindacale, finalizzate – è importante l’indicazione puntuale delle finalità – alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività. Il comma 2 elenca le materie inerenti all’organizzazione del lavoro e della produzione oggetti possibili delle intese.
Questa norma – colpita fin dall’inizio dalla “maledizione di Montezuma” della Cgil – potrebbe essere usata, in chiave derogatoria, per affrontare, attraverso la contrattazione decentrata, tanti problemi, ivi compresa la sperimentazione di forme differenti di retribuzione che, peraltro, non sono estranee a esperienze già compiute come i contratti territoriali di riallineamento rivolti a portare gradualmente alla luce il lavoro sommerso.