Il coronavirus potrebbe non essere nato a Wuhan, in Cina, come l’andamento dell’epidemia ha suggerito. Forse era già ovunque, semplicemente “dormiente“, da mesi se non da anni, in attesa che si creassero le condizioni per scatenare la pandemia che tutti oggi conosciamo. Questa l’ipotesi choc di Tom Jefferson – epidemiologo del Center for Evidence-Based Medicine (CEBM) dell’Università di Oxford e docente all’Università di Newcastle – che intervistato da La Repubblica ha spiegato: “Con il CEBM portiamo avanti sintesi e revisioni degli studi che vengono pubblicati. In questi mesi stiamo ovviamente lavorando a revisioni degli studi sul Sars-Cov-2. È in quest’ambito che abbiamo cominciato a mettere insieme tutte le prove e gli studi sulle condizioni ambientali e meterologiche, e anche su altre possibili condizioni, che potrebbero aver innescato e favorito la pandemia. Uno dei filoni che stiamo seguendo è quello della presenza del virus nelle feci. Già da marzo alcuni colleghi, come risulta dagli studi in “preprint” sulle riviste internazionali, stanno dicendo: ‘Guardate che ci sono quantità impressionanti di frammenti virali nei pozzi neri, nelle fognature, negli scarichi’“. L’esperto prosegue nella sua disamina chiarendo che questa “non è una novità, perché anche nei casi della Sars-1 e della Mers (la malattia respiratoria nel Medio Oriente legata ai cammelli) abbiamo visto la stessa cosa. Nel caso della Sars-1, nel complesso residenziale “Amoy Gardens” di Hong Kong si era osservata una possibile contaminazione dovuta a nebulizzazione delle feci per via dello sciacquone nelle toilette usate da più persone. Rivedendo questi studi abbiamo fatto una specie di corsa all’indietro nel tempo“. Ed è proprio muovendo le lancette al contrario che emergono alcune evidenze che potrebbero riscrivere la storia di questa pandemia.
“CORONAVIRUS FORSE IN CIRCOLAZIONE DA MARZO 2019”
Tom Jefferson spiega: “Tutti gli studi sulla presenza del virus nelle feci sono condotti in genere su campioni di liquami che vengono raccolti nelle fogne, datati e preservati nel congelatore. Sono proprio le date la parte più interessante. Uno studio condotto in Italia dall’Istituto Superiore di Sanità mostra campioni di feci positivi al nuovo coronavirus a Milano due soli giorni dopo Codogno. Più interessante un rapporto su un paziente franco-algerino risultato positivo già a fine dicembre 2019. Poi c’è uno studio che riporta feci positive al coronavirus in Brasile, a Santa Catalina, a novembre 2019. A Barcellona sono poi stati esaminati campioni dal gennaio 2018 ad oggi, e si sono trovati non solo campioni positivi che precedono di 45 giorni il primo caso ufficiale a Barcellona (25 febbraio) ma anche dei residui di genoma virale risalenti addirittura a marzo 2019“. Cosa significa tutto ciò? Jefferson dice: “Innanzitutto sono studi che vanno confermati, perché i test che abbiamo oggi non sono affatto perfetti. Ma se questi studi saranno confermati, ciò significa che il Sars-Cov-2 era già in circolazione da mesi, perlomeno da marzo 2019. Con questo non voglio escludere che il virus si sia originato a Wuhan: ciò che come CEBM diciamo è che è possibile che si sia originato a Wuhan, ma – alla luce di questi studi che le ho citato – nessuno può dirlo per certo. Una cosa che vorrei aggiungere è che in questi studi sono stati ritrovati nelle feci o virioni non più in grado di replicarsi o frammenti del genoma virale: insomma non è il caso di allarmarsi, da questo punto di vista“.
“CORONAVIRUS: POSSIBILE LEGAME TRA DENSITA’ E INQUINAMENTO”
Secondo l’esperto statunitense intervistato da La Repubblica, incrociando i dati e analizzando l’andamento dell’epidemia non può essere esclusa la presenza di un legame tra contagio e inquinamento: “Se lei guarda nella fascia di latitudine che va da Milano, a Londra, a New York, la pandemia ha avuto un andamento che segue molto la densità e il tasso di inquinamento. Un’ipotesi interessante, tra gli studi che abbiamo passato in rassegna, è quella di Mario Coccia del CNR. Coccia suggerisce che l’esposizione prolungata ad alti tassi di particolato – tipica dell’inquinamento in Val Padana – la temperatura tra 0 e 10 gradi, la mancanza di vento, le oscillazioni in umidità e pressione possono aver favorito l’innesco e la trasmissione del virus. Questo può aver senso se consideriamo lo scoppio dell’epidemia in due punti distanti tra loro come Codogno e Vo’ Euganeo. Sono ipotesi che vanno studiate. L’ipotesi di Coccia, ad esempio, spiegherebbe come mai in alcune parti dell’Africa, prive di produzione industriale e quindi di inquinamento, si sono visti pochissimi casi della malattia. Ma, ripeto, tutte queste sono soltanto ipotesi da studiare più approfonditamente“. Jefferson non si sente di escludere neanche un’ipotesi clamorosa, ovvero che il contagio avvenga per contatto: “Diversi studi, ad esempio quelli che hanno esaminato i casi nelle navi da crociera, suggeriscono il contatto – oltre alle goccioline – come possibile mezzo di trasmissione. Anche questa, però, è solo un’ipotesi“.
LO STUDIOSO: “IL CORONAVIRUS FORSE ERA OVUNQUE, SOLO DORMIENTE”
Alla luce di questa tesi, però, la domanda che sorge spontanea è la seguente: dov’era il virus prima di travolgere Wuhan? “Forse dappertutto. Sono interessanti a questo riguardo gli studi che Tobias Ibfelt ha effettuato sugli asili di Copenhagen. Analizzando le superfici di giocattoli, tavolini, divani negli asili si sono trovati tutti i tipi conosciuti di virus respiratori e parainfluenzali, compresi i coronavirus. Non il Sars-Cov-2, che ancora non conoscevamo. C’erano però vari coronavirus, i bocavirus, gli adenovirus, i rinovirus, il virus respiratorio sinciziale (RSV). I coronavirus hanno un tasso di mutazione relativamente lento, questo potrebbe implicare che il Sars-Cov-2 è già presente da decenni nell’ambiente ed è rimasto inosservato per tutto questo tempo. Più in generale, dobbiamo considerare l’ipotesi che i virus siano già qui con noi, magari da moltissimo tempo“. Resta il mistero sui fattori che abbiano attivato il nuovo coronavirus: “Un’ipotesi che trovo interessante è: e se invece di agire da solo, il Sars-Cov-2 agisse in cooperazione con altri soggetti virali che noi o non abbiamo cercato, oppure non abbiamo identificato perché non li conosciamo ancora? Dopo tutto il 17% delle sindromi influenzali sono delle co-infezioni. Per non parlare dei batteri, che, quando una persona si ammala e peggiorano le sue difese immunitarie, tendono ad approfittare della situazione e aggravano le condizioni del paziente. Ma, di nuovo: queste sono ipotesi. Che però vale la pena di valutare per confermarle o smentirle“.