Negli ultimi mesi, da più parti, si è tornati a parlare di autonomia delle scuole come non accadeva forse da tempo. La pandemia e la prevista riapertura degli istituti scolastici a settembre hanno infatti posto davanti agli occhi di tutti la strutturale inadeguatezza, inefficienza e pachidermica lentezza di un sistema d’istruzione gestito a colpi di circolari ministeriali e decreti uniformi per tutto il territorio nazionale. Non che si tratti certo di una novità, ma la gestione del lockdown sembra aver relegato le scuole al ruolo di un servizio pubblico “accessorio”, un bene non “essenziale” e quindi rimandabile “sine die”. Si è vissuto un po’ alla giornata, senza capacità di visione, nell’assenza di un preciso programma per i mesi a venire, guidati solo dallo slogan tanto fortunato quanto effimero dell’“andrà tutto bene”, sperando che, come in una sorta di incantesimo, tutto possa tornare magicamente come prima del Covid–19.
Anche per quanto riguarda la riapertura a settembre assistiamo a ritardi e indeterminatezze: le recenti linee guida emanate dal ministero rischiano di risolversi in un volenteroso quanto velleitario “armiamoci e partite”. Inoltre, l’appello “all’autonomia delle scuole” non può essere utilizzato come artificio retorico di enunciazione di un principio apparentemente condiviso da tutti perché ormai svuotato da qualsiasi significato, utile solo a nascondere la capitolazione del sistema. Come ha sottolineato recentemente su questo giornale Emanuele Contu: “Autonomia e sussidiarietà si esercitano entro un quadro normativo generale chiaro. È grave il continuo riferimento a queste due espressioni (…) senza però occuparsi di creare le condizioni affinché esse possano divenire principi ordinatori del sistema. (…) non ha alcun senso evocare l’autonomia delle scuole senza fare i conti con i tanti vincoli che ne limitano l’esercizio”.
È in questo contesto, qui brevemente richiamato, che viene ora pubblicato per Il Mulino il volume collettaneo Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome, a cura dello stesso Contu e di M. Campione.
Il libro – mettendo insieme una pluralità di voci di personalità differenti (accademici, dirigenti ministeriali, insegnanti, dirigenti scolastici) – tratteggia un quadro di ciò che è stato il percorso istituzionale che ha portato all’affermazione (almeno sul piano formale) dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e prova a individuare i motivi del (parziale? totale?) fallimento di tale progetto, invocando un rilancio per una autonomia delle scuole “rafforzata”. Ci sarebbe qui da discutere se il fallimento sia attribuibile solo alla mancata attuazione della fase riformista avviatasi durante la fine del secolo scorso oppure se vi fossero già in origine i presupposti per un suo sostanziale naufragio. Ma ciò che qui interessa sottolineare sono almeno due punti sui quali il testo curato da Contu e Campione consente di tornare a riflettere.
Il primo messaggio è nel titolo: se occorre “liberare la scuola” vuol dire che ciò che si chiede, forse ancor prima di maggiori risorse economiche e di riconoscimento sociale, è quello di poter essere posti nelle condizioni di poter svolgere al meglio il compito educativo e formativo per cui tanti docenti in giro per l’Italia si impegnano quotidianamente. Non a caso le prime condizioni segnalate dai curatori nel capitolo conclusivo affinché questa “liberazione” avvenga (semplificare e razionalizzare il quadro normativo; un ministero al servizio) hanno a che vedere con un ritrarsi dell’invadenza dei pubblici poteri statali di fronte agli spazi di libertà dei corpi intermedi, scuole in primis.
Certo, in questa traiettoria occorrerà poi decidere se per questa “liberazione” del sistema sia sufficiente un’opera di aggiustamento e “rafforzamento” dell’autonomia oppure se sia invece necessario abbandonare i paradigmi otto-novecenteschi che ancora regolano la vita quotidiana della scuola italiana, intraprendendo la strada di una vera autonomia delle scuole.
E ancora, bisognerà capire come attuare davvero il dettato costituzionale dell’articolo 3 – giustamente richiamato in chiusura del volume – per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Il sistema vigente oggi nei suoi assetti fondamentali sembra perpetuare un modello che, in nome del valore astratto dell’uguaglianza “dei punti di arrivo e non di partenza”, confermi e talvolta allarghi situazioni di iniquità e ingiustizia. Per questo è importante rilanciare la discussione per una autonomia senza inutili “guinzagli” ex ante, ma con gli opportuni e non “quizzistici” controlli ex post. Il che apre il grande tema della funzione dell’istituzione scuola in una società che vede crollare le paratie tra il formale, il non formale e l’informale.
Il secondo messaggio di fondo è racchiuso in un riferimento che ricorre più volte nel libro: da più parti, infatti, nel ripercorrere le vicende che hanno portato al dischiudersi della stagione riformatrice a cavallo del cambio di millennio (1997–2003), si ricorda come il punto di avvio iniziale dell’intero moto riformista fu la conferenza nazionale sulla scuola del 1990, promossa dall’allora ministro della Pubblica Istruzione Sergio Mattarella. Fu, infatti, anche a partire da quella occasione di confronto e discussione che scaturirono alcune tra le principali linee programmatiche e di riforma degli anni successivi. Se c’è una cosa che è parsa particolarmente evidente negli ultimi mesi (anni?) nella governance della scuola italiana è una generalizzata e diffusa mancanza di visione di lungo periodo: come ha scritto Seneca nelle sue Lettere a Lucilio, infatti, “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare” né per l’arciere che non sa quale sia il suo bersaglio verso cui indirizzare la freccia.
Vi è invece l’opportunità, proprio nel mezzo di questa crisi pandemica, di ripensare la scuola, liberandola da decennali ostacoli e ritrosie. D’altronde, come dicono gli inglesi, “when in trouble, go big”: quando sei in difficoltà, gioca al rialzo. Allora perché non riprendere il cammino interrotto – sull’autonomia come su altri temi, come per esempio quello del rapporto tra scuola e mondo del lavoro – e convocare una costituente per la scuola con il compito di ridiscutere, in maniera condivisa e al riparo da improvvisi cambi di maggioranza e di governo, i paradigmi e le strutture di fondo del nostro sistema di istruzione e formazione? D’altronde, come esplicitano i curatori nelle ultime righe del volume, “le scuole si trovano in mezzo al guado di una riforma incompiuta: se non vengono messe in condizione di attraversarlo, rischiano di finire travolte dalla piena”.