Lo studente 27enne egiziano dell’Università di Bologna Patrick George Michel Zaky Soleyman, conosciuto alla cronaca come “Zaky” rimane ancora in carcere a causa dell’ennesima proroga della detenzione, di 45 giorni, decisa dal tribunale del Cairo. Come ampiamente noto lo studente era rientrato il 7 febbraio nel suo paese per visitare i familiari, ma giunto in aeroporto era stato fermato in esecuzione di un mandato di cattura emesso dalla procura generale con l’accusa di aver diffuso false informazioni volte a minare la stabilità dello Stato, incitamento a manifestazione senza permesso, tentativo di rovesciare il regime, uso dei social media per danneggiare la sicurezza nazionale, propaganda per i gruppi terroristici e uso della violenza.
Per quanto drammatica sia questa vicenda – anche se non paragonabile a quella di Giulio Regeni – e per quanto legittime e sacrosante siano state, e siano, le denunce di Amnesty International, è difficile non osservare come l’Occidente non solo abbia la coscienza sporca, ma anche le mani sporche. È infatti fin dai tempi di Mubarak che l’Occidente democratico, almeno a parole rispettoso dei diritti umani, è al corrente – perfettamente al corrente, vorremmo sottolineare – di ciò che accadeva e accade in Egitto.
In Egitto, come ricorda molto bene Domenico Quirico nel suo splendido saggio edito da Salani Che cos’è la Guerra, “i generali controllano tutto, possiedono fabbriche, compagnie aeree, miniere, alberghi, assicurazioni, banche”.
Uno dei luoghi simbolo dell’Egitto di Mubarak – come d’altronde di quello di al Sisi – rimane il ministero degli Interni, il centro di ogni repressione, la tana degli onnipotenti capi della Sicurezza. Coloro che lavoravano infatti per il ministero si mescolavano fra la gente: potevano essere il tuo vicino di casa oppure il collega d’ufficio. I funzionari del ministero ascoltavano, registravano e riferivano avendo potere di vita e di morte sulla gente. Era sufficiente che venisse sollevato un sospetto, come quello di simpatizzare per i partiti islamisti oppure quello di criticare la politica egiziana o la situazione economica, che si poteva essere accusati di terrorismo. In un regime di tale natura, cioè in un regime autoritario, la polizia e la magistratura non avevano che un ruolo marginale. Infatti coloro che lavoravano per il ministero potevano fare irruzione in casa dell’indiziato e portarlo via come avveniva durante i regimi totalitari del novecento.
Il sospettato veniva fatto sparire: poteva uscire di casa per andare al lavoro oppure per andare a pregare ed a un certo punto se ne perdevano le tracce. Una volta che il malcapitato finiva nelle carceri segrete della sicurezza l’unico modo per uscirne era sotto forma di cadavere, per essere gettati in qualche fosso nel deserto o nella discarica. Il caso veniva archiviato o come rapina o come delitto passionale. Dentro le carceri avvenivano violenze di ogni tipo: bastonature, scariche elettriche, l’uso della tecnica di tortura della piscina – usata anche dalla Cia nelle sue operazioni coperte contro gli integralisti islamici – con la quale il prigioniero veniva immerso con la testa in un recipiente pieno d’acqua causandogli sensazioni di soffocamento.
Ebbene, l’Occidente di allora – e di oggi – è pienamente al corrente di quello che avveniva all’interno delle carceri del ministero degli Interni: qui non erano detenuti malviventi ma intellettuali, professori, studenti, sindacalisti, tutti coloro che si opponevano al regime di Mubarak esercitando il sacrosanto diritto democratico di critica. Siamo davvero sicuri che le cose siano cambiate nell’Egitto attuale? Pensando al caso di Giulio Regeni è difficile crederlo. Forse le armi e il petrolio valgono più di una vita umana.