Ve l’immaginate Giuseppe Conte, il giovane di bottega di Di Maio e Bonafede, quello che festeggiava nella sede dei Cinquestelle la sera della vittoria elettorale cercando di farsi notare e di intrufolarsi tra i capi bastone del Movimento, che fa la voce grossa con i partner europei? Per carità, la faccia tosta non gli manca. Ma è ridicolo pensare che – se la fa – serva a qualcosa.
“Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”, disse Alcide De Gasperi alla Conferenza di pace di Parigi nel 1946. E così si conquistò il rispetto dei Paesi alleati, vincitori. Ma era uno statista, e comunque un grand’uomo. Conte dovrebbe dire: “Rappresento un Paese che da trent’anni buca tutti i parametri europei, non usa i fondi comunitari e si è meritato quasi cento procedure d’infrazione. Tuttavia siamo uno Stato fondatore, siamo la seconda potenza manifatturiera ed esportatrice d’Europa, aiutateci a superare la crisi da Covid, e noi sapremo cambiare strada”. Non sarebbe vero, ma sarebbe bello: forse, efficace.
Invece macché: Conte non è uno statista, forse nemmeno un grand’uomo. Se ne sta lì col ditino alzato, a rinfacciare all’Olanda di essere un paradiso fiscale (vero) e all’Austria di essere xenofoba (vero), senza rendersi conto però che nel bilancino del dare-avere, dei diritti e dei torti, l’Italia è dopo l’ultimo banco, in Europa. E lo è da tanto, non certo soltanto da quando comanda – si fa per dire – Conte e il suo accrocchio para-esecutivo.
Al momento in cui quest’articolo viene scritto il vertice europeo di Bruxelles è ancora in corso ed è in salita, come dice lo stesso Conte in un video girato – su regia di Rocco Casalino, capirai la pochezza – in maniche di camicia e leggermente spettinato per dire che il negoziato è “più complicato del previsto” (ma chi l’aveva previsto, che fosse semplice?). Ma oggettivamente, come poteva essere “in discesa”? Certo, alla fine la linea di Francia e Germania passerà, ma alle condizioni che alla fine è la stessa Germania a voler ridefinire con l’aiuto dei Paesi cosiddetti frugali, che sono tutti vassalli della Merkel.
Quello che Conte non dice è che non ha in mano né il Paese, né il Governo e nemmeno Palazzo Chigi. Mentre si varava il decreto Semplificazione, veniva pubblicato in Gazzetta il decreto Rilancio, che per diventare operativo ha bisogno di 155 decreti attuativi, uno sberleffo al popolo italiano, una pernacchia al buonsenso, un vilipendio all’emergenza. Come possiamo pretendere che l’Europa si fidi sulla parola della nostra capacità di tener fede agli impegni? L’abbiamo forse mai fatto prima?
Dai cronisti annidati all’esterno delle sale dei negoziati trapelano indiscrezioni e ipotesi varie. Chi dice che la Germania concederebbe al suo vassallo olandese Rutte la possibilità di “tirare il freno a mano” contro l’erogazione degli aiuti ai Paesi che (l’Italia?) non riuscissero a dimostrare dopo un anno di star facendo le riforme (ma quali riforme? Non riescono a fare neanche una riformicchia). Chi riferisce che alla fine l’accordo consisterà nel ridurre la parte di denari destinata ai essere regalata a favore di quella che verrà prestata e andrà dunque rimborsata dagli Stati beneficiari. Chi infine scommette che l’entità complessiva della manovra finirà col ridursi dai 750 miliardi ipotizzati da Macron e Merkel giù verso quota 550…
Si vedrà. Guai ai vinti, comunque: non basta un po’ di inglese e un sorrisetto a riparare a decenni di incuria europea.