Alla fine tutti diranno che hanno vinto. Come vuole la prassi. Ma, come vuole la prassi, non è affatto così. Ci sono vincitori e vinti nel vertice europeo più lungo di sempre, ma non tutti lo ammetteranno. A stravincere la maratona negoziale è il premier olandese Mark Rutte, spalleggiato dall’austriaco Sebastian Kurz, leaders dei cosiddetti “paesi frugali”. Hanno tenuto testa a un fronte molto più forte, 22 contro 5, e fra essi i quattro maggiori soci del club Europa, Germania, Francia, Italia e Spagna.
Clamoroso soprattutto l’affrancarsi dall’egemonia tedesca, forse dovuto al lento declino dell’autorità di Angela Merkel, che dovrebbe uscire di scena fra un anno esatto. Dopo il Consiglio europeo di Bruxelles l’Unione non sarà più la stessa, perché una robusta minoranza di blocco sa di poter strappare concessioni molto vantaggiose, compreso un quasi diritto di veto. Vince anche l’ungherese Orbán, abile nello schierarsi con i paesi più grandi, in modo da evitare che si entrasse nel merito delle violazioni dello stato di diritto imputate a Budapest (e a Varsavia).
Ed è proprio la Merkel il leader che esce più ammaccato dal braccio di ferro sul Recovery Fund. Lei e Macron sono stati smentiti seccamente: il piano di aiuti post Covid è stato ridimensionato. Quell’intervento straordinario per fronteggiare una emergenza straordinaria è molto meno straordinario di quanto promesso e auspicato.
Canta vittoria anche Giuseppe Conte, che ha posto una narrazione furba per nascondere la realtà dei fatti, che gli aiuti a fondo perduto in arrivo sono molto meno del previsto. E che sei si vorranno più soldi bisognerà ricorrere ai prestiti, che hanno il difetto di dover essere prima o poi restituiti.
Il premier e il suo portavoce hanno fatto di tutto per accreditare l’immagine di un negoziato all’ultimo sangue, da cui la delegazione italiana ha saputo strappare la migliore soluzione possibile. È tutto da dimostrare che sarà davvero così, anche perché il diavolo in una trattativa tanto complessa sta nei dettagli. E gli sherpa italiani hanno avuto più volte l’impressione che i “frugali” facessero di tutto per rendere difficoltosa la spesa dei fondi europei.
Probabile però che, almeno nell’immediato, l’immagine del premier possa uscire rafforzata dalla maratona in terra belga. Una crisi di governo non era certo in vista, nonostante le fibrillazioni della coalizione di governo, e di sicuro si allontana ulteriormente, sino alle regionali, almeno. E questo dato non può che far tirare un sospiro di sollievo anche al Quirinale, per cui il più grande pericolo per il paese viene dall’instabilità e dall’assenza di un governo. Mattarella si era speso molto alla vigilia nel sostenere le posizioni del governo.
I problemi, però, sono ben lontani dall’essere risolti. Il Capo dello Stato aveva chiesto all’Europa di essere coraggiosa e lungimirante, e senza dubbio si aspettava qualcosa di più. Ha visto prevalere la diffidenza rispetto al senso di solidarietà, e questo non può che aumentare le preoccupazioni per il futuro dell’Unione, incapace agli occhi di Mattarella di fare un vero salto politico. Dove, anzi, prevalgono le spinte mercantilistiche e nazionalistiche.
Sul piano nazionale cruciale sarà il fattore tempo, se cioè i fondi potranno essere già considerati nella fase di scrittura della legge di bilancio per il 2021, che si preannuncia come una sfida titanica. Se l’erogazione dovesse tardare, per il governo sarebbero dolori. Dalle parti del Pd c’è chi è pronto a rinfacciare a Conte di essersi sdraiato su una unica ipotesi negoziale, gli aiuti a fondo perduto del Recovery Fund, scartando a priori l’utilizzo del Mes per non irritare i 5 Stelle. Accedere adesso a questo strumento costituirebbe un autogol pazzesco. Ma far quadrare i conti sarà per Gualtieri impresa ardua, a meno di non fare altro deficit, cioè debito per le prossime generazioni.
Da qualche settimana Conte è impegnato nel percorrere una strada nuova per consolidare la sua leadership: cementare sul territorio l’alleanza fra Pd e M5s. Con la sponda di Zingaretti, sinora l’operazione è riuscita solo in Liguria, anche se con scarso entusiasmo da entrambe le parti. Se non dovesse sortire effetto, il premier sarebbe molto più debole, e molti nella maggioranza (Renzi in testa) potrebbero presentargli il conto. E allora si scoprirà che la vittoria di Bruxelles altro non è stato che una vittoria di Pirro.