Dopo quattro giorni sofferti, l’intesa sul varo del Recovery fund è stata trovata. E si tratta di un risultato di grande valore, destinato a incidere profondamente sulla natura e sul ruolo delle istituzioni europee. Le conseguenze della pandemia Covid hanno convinto i Governi dei Paesi aderenti sull’urgenza di potenziare le iniziative dirette a sostenere con una funzione anti-ciclica l’andamento delle economie nazionali. Il varo del Recovery fund, finanziato con l’emissione diretta di titoli di debito da parte dell’Ue, è avvenuto a valle di una serie di decisioni riguardanti la sospensione del Patto di stabilità per i vincoli di indebitamento degli Stati nazionali, della promozione di ulteriori fondi, Mes, Bei, Sure finalizzati a sostenere specifiche iniziative di investimento e di tutela dell’occupazione, in parallelo alla decisione della Bce di ampliare in modo massiccio l’acquisto di titoli di debito pubblici e privati.
La strada della Europa “keynesiana” mette definitivamente fine alle politiche di austerità che avevano caratterizzato le prime reazioni delle istituzioni dell’Ue nella prima fase della crisi economica iniziata nel 2008. Scelte economiche destinate a incidere anche sull’evoluzione delle istituzioni. Alcune decisioni previste nell’intesa raggiunta, come l’approvazione dei piani nazionali da parte del Consiglio dei ministri dell’Ue a maggioranza qualificata, vanno in questa direzione. Risorse sufficienti per tamponare gli effetti della crisi economica e per invertire la rotta? Non lo sappiamo. Ma la strada segnata può essere solo ulteriormente implementata, difficile tornare indietro. E questo vale più di qualsiasi clausola.
Nel merito il risultato finale non sconfessa la proposta avanzata dalla Commissione. Conferma i 750 miliardi di intervento complessivo, riducendo la parte dei cosiddetti sussidi a fondo perduto, da 500 a 390 miliardi, compensati con l’aumento della quota dei prestiti, per venire incontro alle posizioni del gruppo dei 4 Paesi nordici e dell’Austria che rivendicavano la necessità di condizionare maggiormente l’utilizzo delle risorse da parte dei Governi nazionali. Richiesta peraltro parzialmente accolta nella citata decisione di trasferire l’approvazione dei piani dalla Commissione al Consiglio dei ministri e di consentire a qualsiasi Stato aderente di proporre allo stesso organismo la sospensione delle erogazioni dei fondi di fronte a ritardi e discordanze nel loro utilizzo da parte dei singoli Stati rilevati dalla struttura di valutazione dell’Ecofin.
Nonostante le novità introdotte, l’Italia vede sostanzialmente confermata la quota dei finanziamenti a fondo perduto, circa 81 miliardi, e persino un incremento di 38 della quota dei prestiti accessibili sino ai 128 miliardi. Date le premesse, un risultato certamente di grande rilievo, ottenuto dalla Commissione tramite un sapiente lavoro di salvaguardia delle poste da stanziare per i Paesi più colpiti dalla pandemia, e di compensazioni che porteranno a una parziale riduzione della quota dei contributi al bilancio dell’Ue per i Paesi nordici e l’Austria. Sulla carta questo aumento consentirebbe di compensare anche la parte dell’eventuale rinuncia ai fondi del Mes per gli interventi nel settore sanitario.
Tuttavia, una volta riconosciuto il risultato, non è consigliabile abbandonarsi ai toni trionfalistici. In questi giorni è apparso evidente che il bersaglio delle critiche non sono stati nel loro insieme i Paesi del sud Europa, ma principalmente l’Italia. Per la scarsa capacità di utilizzare rapidamente i fondi europei e nazionali, per la perenne tentazione di destinarli a usi improduttivi in coincidenza di tassi di crescita economica da fanalino di coda tra i Paesi aderenti. L’unico Stato a non aver presentato nelle scadenze previste il piano delle riforme per l’utilizzo delle nuove risorse, e che ha caratterizzato tutta la strategia difensiva delle proprie posizioni sul rifiuto delle verifiche per il loro utilizzo da parte dei singoli stati.
L’esito finale dovrebbe aver chiarito, semmai ce ne fosse bisogno, che l’utilizzo delle risorse erogate direttamente dalle istituzioni europee, a partire dai sostegni a fondo perduto, presuppongono un aumento di queste condizioni, anche ai fini della sostenibilità del debito pubblico, di gran lunga superiori a quelle previste per la linea Mes finalizzata agli investimenti nella sanità. In quella sede non contano le chiacchiere e le buone intenzioni, ma la credibilità dei programmi e i risultati che concretamente vengono realizzati.
Nel complesso saremo chiamati a impegnare il volume delle risorse disponibili entro il 2023. In condizioni di fragilità per la carenza di progetti di ampio respiro, e di un sostanziale esaurimento dei margini di indebitamento pubblico, in attesa dell’arrivo delle prime rate dei nuovi finanziamenti, che avverranno non prima dell’estate del 2021. Il tutto nell’ambito di una recessione economica destinata, secondo le previsioni, ad aumentare ulteriormente il divario di reddito e di occupazione rispetto a tutti gli altri paesi aderenti all’Ue.
Per certi aspetti dovremmo essere lieti degli esiti, persino per quelli indesiderati, del vertice europeo. Ci obbligano a fare i conti con la realtà. Allo stato attuale è lecito dubitare che il nostro Paese si stia dotando di una governance adeguata a mobilitare un volume simile di risorse. Prevale la tentazione di difendere l’esistente, con un massiccio ritorno dello Stato gestore delle imprese e dispensatore di benefici. Anche a costo di ampliare il debito senza porsi il problema della sua sostenibilità. Non esattamente il modello ideale per gestire il nuovo Recovery fund.