In medio stat virtus. Facile immaginare la virtù che invita a calibrare le sfide, a equilibrare l’eccessivo rischio di un’impresa, quando si ragiona in astratto; diventa ben più difficile all’interno di una dinamica connotata dall’imprevedibilità e dall’entusiasmo per un progetto vagheggiato come un sogno, condiviso e preparato da tempo.
Stiamo mettendo a fuoco l’avventura di un bambino scozzese di 11 anni, Jules Molyneaux, che ha affrontato una scalata impervia raggiungendo la vetta del Cervino lungo la via svizzera. Era accompagnato da suo padre Chris e da due guide alpine, ad affrontare una sfida avvincente, di certo attesa con trepidazione, sostenuta da un impegnativo allenamento che durava da due anni e non interrotto neppure durante il lockdown.
Non è mancato il lieto fine nell’evento fuori dal comune: Jules, approdato alla meta, i 4478 metri della cima, nonostante la spossatezza nelle gambe che sentiva “di gelatina”, ha espresso una meraviglia indicibile. “A metà strada per la vetta inizi a vedere tutto arancione dietro le Alpi. È fantastico” ha raccontato descrivendo lo spettacolo di un’alba che resterà incancellabile insieme alle tante sensazioni impresse nella sua mente.
Fin qui la vicenda sembrerebbe avvalorare un intento desiderabile, un’audacia tutta giocata all’interno di un legame, di una paternità per sua natura chiamata a spalancare gli orizzonti della conoscenza, a coniugare il sentimento protettivo con lo slancio verso un traguardo più esigente, forse non definibile, che mai potrà evitare del tutto qualche rischio.
Il dibattito sulla scelta di questo padre si è aperto proprio sul crinale di quella virtù che consiglierebbe un attento calcolo delle eventualità più insidiose e realisticamente probabili di un’impresa che avrebbe potuto avere un epilogo ben diverso e persino tragico. È lo stesso padre di Jules ad aver ammesso, una volta toccato il cielo con un dito, che l’eroica operazione era stata tutt’altro che priva di risvolti drammatici, che avrebbero potuto mettere in serio pericolo anche suo figlio. “Le condizioni risultavano decisamente pericolose, con parecchia neve e scariche di sassi. Il giorno in cui siamo saliti eravamo in dieci e una persona è morta. Un ragazzo è volato per quattrocento metri ed è stato recuperato in elicottero”. Questa la dichiarazione riportata dal Corriere della Sera che ha reso nota la notizia destinata a suscitare una disputa difficile da dirimere: non è semplice scorrendo le righe di una breve cronaca definire i contorni di un evento che per certi aspetti sembrerebbe preparato con scrupolo e realizzato con il supporto di due guide alpine, ma dall’altro evoca insidie incalcolabili e sempre in agguato anche per gli scalatori più esperti.
Il desiderio e la tenacia di un figlio per una conquista che sente come sfida decisiva, scaturiscono a volte da un pensiero distante dal suo, forse del tutto estraneo, ispirato da un’ambizione paterna eccessiva, incapace di coniugarsi con una prospettiva di bene autentico. Ma chi potrebbe insinuarsi nelle pieghe di queste aspirazioni non sempre lucide e consapevoli?
Certamente l’ombra di un’eccessiva temerarietà si allunga tuttavia pensando ai soli 11 anni di Jules, al vivo entusiasmo e all’innata fiducia di un bambino avvinto da un sogno esaltante.