Una frase attribuita a Charles Darwin suona più o meno così: “Nella gara per competere tra specie non sopravvive la più forte, la più grande o la più veloce ma solo quella che sa adattarsi meglio”. Che sia stata o meno pronunciata è in dubbio, ma la sostanza del pensiero evoluzionista è ben espressa. Ogni fase storica propone una sfida che ha come esito un mutamento delle gerarchie e l’emergere di nuove forze e di equilibri prima insospettabili. Molto del percorso che attende il Paese ha a che fare con la capacità che dimostreremo di adattarci ed emergere da un evento che, nella sua unicità, non offre percorsi prestabiliti e certezze ma che lascia molto al caso e all’improvvisazione.
I mutamenti sono evidenti in tutto il Paese. Le stazioni e gli aeroporti hanno saracinesche calate che prendono polvere ed i viaggiatori somigliano ad intrepidi esploratori più che a pendolari o manager, gli uffici delle grandi città sono vuoti e tutti sono in smartworking, felici, per ora, di aver trovato un ripiego operativo che eviti la disoccupazione. L’economia legata agli spostamenti, dal turismo alle fiere, non fornisce più clienti e Milano, che pre-Covid ospitava oltre 3,2 milioni di persone al giorno, oggi deve sostenersi con i suoi residenti, che sono circa un terzo.
Che le cose tornino come prima è ininfluente nel medio periodo. La situazione resterà simile per mesi ancora, un po’ per un riflesso condizionato, un po’ per il timore che la ripresa, così come la immaginiamo, ovvero simile al gennaio di quest’anno, possa essere foriera di nuovi problemi. Nel Mezzogiorno il sole estivo porta un profumo di normalità, ma la ripresa di settembre ancora appare lenta e confusa, con i problemi soliti e qualcuno nuovo, compreso quello della disoccupazione e della carenza di investimenti. Ma le proposte del Governo hanno aperto delle strade parzialmente nuove. Solo parzialmente. E l’urgenza di avviare un processo nuovo è oggi talmente pressante che su questo, più che sulle risorse economiche, il Governo stesso verrà misurato. Le cose sono cambiate e tocca noi cambiare. Per anni la finanza pubblica ed il set di norme che regolano i mercati sono state costruite al fine di imbrigliare e limitare le decisioni.
Patti di stabilità, piani di rientro, norme “anti” tutto (dalla corruzione all’inquinamento) hanno messo divieti e limiti spesso draconiani nell’intento di bloccare e limitare condotte dannose, con un esito indiretto. Se da una parte qualche risultato si è visto, questa furia normatrice ha costruito un ambiente ingessato, fatto di limiti e doveri che hanno creato, in più occasioni, una frizione potentissima alle scelte, fino quasi alla paralisi.
In pratica si è cucita una camicia di forza ai conti pubblici, alla libertà delle imprese ed alle libertà individuali con l’intento di evitare derive. Quello che si è ottenuto è una Polaroid ingiallita che fotografa un mondo che ora non c’è più. In questo contesto riuscire ad avere la flessibilità per cambiare e per poter adattarsi diventa estremamente complesso. Per due motivi.
Il primo è emozionale. Ancora non si è sedimentata nel Paese la consapevolezza del cambiamento. La speranza che il passato torni è ancora troppo presente. L’altro è la refrattarietà del sistema normativo ai cambiamenti ed alla flessibilità. Dopo anni passati ad ingessare la contabilità degli enti locali e dello Stato, a chiedere il blocco delle grandi opere con norme ad hoc, a sbandierare la rigidità dei controlli, la politica ed i commentatori guardano al futuro con i fantasmi del passato a sussurrargli alle spalle le solite soluzioni.
Perciò è necessario che la semplicità si impadronisca della burocrazia, che la spesa per investimenti sia veloce, che si guardi alla luna del futuro (figlio di riforme strutturali) e non al dito dello status quo che (figlio di un passato ormai obsoleto) altro non è che una mendace narrazione di una mondo che già prima di questa crisi segnava il passo.
Il Paese e larga parte del Mezzogiorno hanno le energie e la vitalità per adattarsi e trovare da soli una strada nuova dello sviluppo, non resta che liberare queste energie ed affidarsi ai talenti piuttosto che sotterrarli sotto un cumulo di legacci.