Domenica era il 26 luglio. Otto anni esatti dal discorso del Whatever it takes di Mario Draghi, poche parole destinate però a entrare nella storia. Quantomeno in quella di una moneta unica che rischiava seriamente di finire ingloriosamente e anzitempo la sua avventura. Nessuno ha sentito il bisogno di celebrare la ricorrenza. Giustamente. Per almeno un paio di motivi. Primo, di solito si tributano omaggi a scadenze temporali come i decennali o i ventennali. Otto anni appaiono rituali, anonimi. Secondo motivo, tutti – almeno in questo Paese di unicorni al potere – sono ancora ebbri del risultato ottenuto al Consiglio europeo, il mitico Recovery Fund con i suoi 209 miliardi in dote per il nostro Paese. Quasi quasi, il Qe lanciato all’epoca da SuperMario appare poca cosa. Sicuramente, passa in cavalleria. Ma domenica, 26 luglio, è successo qualcosa che il sottoscritto aveva ampiamente preventivato e anticipato su queste pagine e che i media italiani – quelli autorevoli – si sono ben guardati dal raccontarvi.
Intervistato dal Funke Mediengruppe – terzo editore di Germania, cui fanno capo circa 500 pubblicazioni in otto Paesi – proprio nel giorno della ricorrenza del lancio del Qe è tornato a parlare Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank. E cos’ha detto? Tante cose. Ma una frase basta per tutte, essendo direttamente riferita proprio al Recovery Fund, su espressa domanda dall’intervistatore: “Il piano europeo non dovrebbe servire come trampolino per creare debito Ue su larga scala finalizzato al finanziamento della spesa corrente”. Ma non basta: “È importante che le misure di supporto siano limitate, in modo tale che possano esaurirsi automaticamente nel corso del tempo e che le finanze pubbliche possano così stabilizzarsi ancora”.
E al di là della data in cui questa parole sono state pronunciate, decisamente simbolica, occorre far notare tre particolari in più. Primo, l’intervista di Weidmann è sembrata una chiara risposta a quella rilasciata subito dopo il raggiungimento dell’accordo a Bruxelles dal presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, con la Frankfurter Allgemeine Zeitung, chiaramente improntata al trionfalismo e alla difesa dei risultati ottenuti. Inoltre, poco prima dell’intervista di Weidmann con il gruppo editoriale di Essen, il dibattito sul Recovery Fund era stato enfatizzato dal colloquio del vice-presidente della Bce, Luis De Guindos, con il quotidiano spagnolo El Independiente, nel quale il numero due di Christine Lagarde andava oltre, mostrando di fatto la vera natura di quel piano senza precedenti: “Nessuna nazione europea deve essere lasciata indietro. A tal fine, il Recovery Fund riduce il rischio di un’Europa a due velocità. Evidentemente la ripresa nell’eurozona non sarà uniforme, ma questo piano comprime le divergenze tra le varie economie”. Dopo la compressione artificiale degli spread, quella dei deficit spacca-euozona. Di fatto, un collante per tenere insieme un’Europa già oggi a due velocità, come d’altronde mostrato dal dato PMI preliminare di venerdì scorso.
Insomma, Jens Weidmann ha detto chiaro e tondo che se il Recovery Fund servirà per trasferire fondi esiziali ad economie che altrimenti rischierebbero di non resistere alle pressioni della crisi da Covid, allora alla Bundesbank la cosa non va decisamente bene.
Secondo particolare, le parole del numero uno della Banca centrale tedesca appaiono una coltellata alla spalle, almeno a livello ufficiale, rispetto alla linea politica di Angela Merkel, presidente di turno dell’Ue e per questo protagonista assoluta della mediazione senza fine che ha portato al contenimento delle divergenze e al compromesso finale. La Bundesbank ha ufficialmente aperto un fronte di opposizione rispetto al Governo federale, di fatto ponendosi come soggetto talmente autonomo e indipendente da permettersi di criticare quello che molti ritengono il capolavoro politico della Cancelliera a fine carriera?
Ricordatevi una cosa: nonostante su queste pagine più e più voci autorevolissime abbia ridimensionato la valenza politica e vincolante della sentenza della Corte costituzionale tedesca, trincerandosi dietro alle risposte da falsa dura di Christine Lagarde e al voto della paura espresso dal Bundestag, il 5 agosto si avvicina a grandi passi. E se la mancata risposta rispetto alle deviazioni di proporzionalità del Qe e dell’attuale Pepp venisse ora utilizzata come arma politica e di diritto contro il bersaglio grosso del Recovery Fund, il quale a differenza del piano di acquisti obbligazionario dell’Eurotower contiene infatti i germogli della mutualizzazione del debito per generare i finanziamento necessari al fondo tramite emissione di titoli comuni? Ve lo avevo detto che in tanti avrebbero patito un brutto risveglio, ritenendo i togati in rosso di Karlsruhe dei poveracci costretti a recitare una parte fuori tempo massimo.
Terzo particolare, se la mossa della Bundesbank dovesse generare dibattito tale in sede europea da rimettere in discussione il Recovery Fund nella sua forma attuale – non è scolpito nella pietra, infatti – e quindi mandarlo in stand-by (cosa che ai sempre più effervescenti Paesi frugali certamente non farebbe dispiacere), che fine farebbero i sogni di gloria del governo Conte e dei suoi già 100 miliardi di scostamento di bilancio? Ma soprattutto, che fine farebbe il nostro Paese, la nostra economia reale, prima ancora che il nostro spread? E qui le parole di Luis De Guindos riguardo il rischio di un’Europa a due velocità paiono un monito decisamente chiaro. Se per caso si arrivasse davvero a una sorta di frattura de facto dell’eurozona e alla nascita di un’Ue parallela a due velocità, partendo dal chiaro monito della Commissione Ue all’Italia di focalizzare la destinazione dei fondi del Recovery Fund verso il Sud del nostro Paese, siamo sicuri che gli equilibri interni reggerebbero? Siete certi che un Matteo Salvini che sente il fiato sul collo della magistratura da un lato e di Fratelli d’Italia dall’altro non scelga, giocoforza, una ritirata strategica nel fortino elettorale storico che sta al di sopra di quelle che era la Linea Gotica?
E il Veneto della superstar Luca Zaia, cosa farebbe, stante le sempre presenti pulsioni autonomiste al suo interno e destinate solo ad acuirsi per la crisi da post-lockdown? Il Recovery Fund rischia di tramutarsi da ancora di salvezza ad ancora legata al collo dell’Italia, almeno nell’assetto in cui la conosciamo?
Che alla Germania interessi salvare economicamente soltanto il Nord è cosa nota e pragmaticamente logica, visto il livello di interdipendenza industriale e commerciale, quindi il botta e risposta involontario e indiretto da De Guindos e Weidmann dovrebbe far riflettere doppiamente. Ma tranquilli, i media – quelli autorevoli – queste cose non ve le raccontano. Preferiscono parlarvi dello scontro sul Mes. Che, forse, garantirà a questo Paese ancora qualche mese di tregua armata, se il Governo smetterà di vendere fumo all’opinione pubblica in chiave elettorale e correrà ad attivarlo. Matteo Renzi è stato chiaro nella sua intervista di domenica a Repubblica: sarà la crisi a imporcelo. Magari non quella da Covid, ma quella di cui ha appena creato i prodromi, su mandato della Corte di Karlsruhe, il capo della Bundesbank.
Festeggino pure il Recovery Fund a palazzo Chigi e dintorni. Perché la festa sta per finire.