Che il 2020 da un punto di vista di andamento dell’economia porterà a un saldo drammatico è ormai un dato acquisito, c’è però chi azzarda previsioni che vedono la cara vecchia Europa favorita rispetto agli States per limitare i danni. Certo, vincere una gara dove la richiesta non è fare meglio ma meno peggio non è una soddisfazione, ma le borse potrebbero non pensarla così, decidendo di premiare nel medio termine non chi ha speso di più per fare fronte all’emergenza economica derivante da quella sanitaria, ma chi ha speso con maggiore accortezza.
La prima cosa da sottolineare comunque è che il rialzo delle borse visto negli ultimi mesi probabilmente non durerà, o almeno non lo farà con questi ritmi, le probabilità che il mercato esaurisca presto o tardi i motivi che gli hanno permesso di sostenere le quotazioni fino a questo momento (in realtà fondamentalmente si tratta di un solo motivo, il mare di liquidità proveniente dalla banche centrali sul quale hanno galleggiato un po’ tutti gli asset finanziari) sono elevate e quindi deve essere messa in conto una robusta correzione nei prossimi mesi, un ripiegamento che potrebbe anche prendere di sorpresa i risparmiatori per la sua ampiezza.
Non deve essere infatti dimenticato che esiste una proporzionalità tra l’ampiezza di un movimento e la sua correzione, di norma tanto è più ampio il primo, tanto è più estesa la seconda. Come dire, alla fine i nodi potrebbero venire al pettine e il divario tra andamento dell’economia, molto appesantita, e quello degli indici azionari, in espansione nonostante tutto, potrebbe ridursi notevolmente. L’ipotesi che l’Europa possa uscire alla fine meglio degli Usa dalla pandemia è quindi forse una carta da giocarsi in termini di scelte di investimento non tanto adesso, ma durante la prossima fase di rialzo, una volta terminata la probabile futura correzione.
Fitch ha tentato di guardare al medio termine e, pur partendo dalla premessa che le prospettive per i prossimi 5 anni sono altamente incerte per tutte le economie avanzate, ha anche affermato che la recessione (è probabile che chi segue le borse, accecato dalle performance dei listini, non se ne sia accorto, ma l’economia reale, anche quella globale, è effettivamente in recessione) avrà un impatto duraturo sul Pil. Nel suo report “Coronavirus Gdp Impact to Persist in Medium Term” Fitch ipotizza che ancora nel 2025 il Pil dei maggiori Paesi sarà del 3-4% al di sotto del livello che era implicito nella tendenza pre-virus.
Questo per quello che riguarda il contesto generale, ci saranno poi delle notevoli differenze: ad esempio, l’Italia nel 2025 sarà a saldo zero rispetto ai valori del 2019 (per Fitch -0,4% il Pil dal 2020 al 2022, poi +0,3% tra il 2023 e il 2025), impiegherà quindi 5 anni per recuperare totalmente lo svantaggio dato dal Covid-19, mentre gli Usa potrebbero raggiungere questo traguardo già a metà del 2022 e la zona Euro alla fine dello stesso anno. Tutto questo nell’ipotesi che non si verifichi una nuova emergenza sanitaria che renda necessaria l’adozione di ulteriori misure di lockdown. Del resto dopo la crisi della finanza globale del 2008 gli Usa avevano impiegato circa 4 anni per risollevarsi, la zona Euro quasi il doppio, pretendere che una scoppola come quella del Covid-19 possa essere metabolizzata in tempi inferiori non appare molto ragionevole.
Per il momento Goldman Sachs prevede che la domanda globale di petrolio per la fine del 2020 si fermi a 96,3 milioni di barili al giorno, 6 milioni in meno rispetto a quelli che venivano previsti prima dello scoppio della pandemia. E il comparto dei trasporti resterà in sofferenza anche nei mesi a venire. Sempre Goldman Sachs ipotizza infatti che il consumo di carburante per i jet alla fine del 2021 sarà ancora di 0,7 milioni di barili inferiore rispetto ai livelli del 2019.
Entrambe queste previsioni mal si conciliano con una prospettiva di ripresa a “V” dell’economia mentre sono decisamente più compatibili con una “U”, ovvero con un ritorno alla normalità che richiede un tempo prolungato per realizzarsi. Ma come accennato le tempistiche di una ripresa potrebbero essere diverse per Stati Uniti ed Europa, con quest’ultima che grazie a una politica di lockdown più stringente adottata in media dai diversi paesi dell’Unione sarebbe in condizione di rimbalzare, almeno in termini di Pil, con maggiore decisione.
Secondo l’Ocse le prospettive per il Pil Usa sono di un calo del 7,3% nel 2020 e di una ripresa del 4,1% nel 2021 (-8% e +1,9% in caso di riacutizzarsi della pandemia), per l’area Euro l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico si attende invece una contrazione del 9,1% nel 2020 e una ripresa del 6,5% nel 2021 (-11,5% e +3,5% in caso di scenario avverso). Anche JP Morgan avanza previsioni nella stessa direzione ipotizzando un Pil statunitense in aumento del 2,8% nel 2021 (dopo un calo del 5,1% quest’anno) a fronte di un aumento del 6,2% di quello dell’area Euro (-6,4% nel 2020). Goldman Sachs si accoda a questo scenario, grazie al maggiore controllo del coronavirus la banca Usa si attende che l’Europa si dimostri più forte degli Stati Uniti nei prossimi 1-2 anni, una situazione che raramente si verifica ma che in questa situazione appare possibile e che potrebbe avere conseguenze sulle scelte di investimento delle banche di affari.
Gli analisti di un altro dei giganti bancari Usa, Morgan Stanley, prevedono che il “Recovery fund” possa diventare un “game changer”, ovvero un elemento in grado di cambiare le carte in tavola e favorire l’azionario europeo, in particolare quello dei Paesi periferici, quindi anche di Piazza Affari. Morgan Stanley si spinge a ipotizzare una sovraperformance dell’azionario dell’area Euro del 10% rispetto a quello globale e del 15% degli indici dei Paesi periferici.
In generale la maggiore coesione dimostrata per una volta dai Paesi dell’Unione nell’approntare strumenti in risposta alla crisi rispetto agli Usa è un elemento che attira i giudizi favorevoli degli analisti. È tuttavia necessario mantenere i piedi per terra, come ricorda Ubs infatti nel 2020 stimano una contrazione dei profitti per le aziende dell’area Euro del 39% e successivamente una ripresa lenta.
Certo, gli Usa potrebbero varare a breve un ulteriore piano di stimolo da 1.000 miliardi di dollari e riportare su di sé i riflettori dei mercati (questa è l’ipotesi dei repubblicani, i democratici ne vorrebbero addirittura 3.000 sul piatto), ma c’è da domandarsi se a questo punto andare ad aggravare ulteriormente la situazione dei conti pubblici americani sia la soluzione giusta per aiutare l’economia, tanto più che il maggiore creditore estero per gli Usa è la Cina e che proprio nei confronti della Cina le tensioni stanno aumentando.
E per quello che riguarda il breve termine, ovvero lo spazio che ci separa dall’inizio dell’autunno? La prospettiva di una fase di ripiegamento consistente delle borse, che permetta alle quotazioni di rispecchiare in modo più credibile lo stato dell’economia, e quindi dei profitti realisticamente attesi da parte delle aziende, potrebbe essere come già accennato sopra alle porte. Inutile tuttavia trasformarsi in Cassandra e andare contro uno dei postulati di base dell’analisi grafica, quello secondo il quale una tendenza resta in atto fino a che non emergono segnali contrari al suo proseguimento.
Quello che è interessante fare quindi in questo momento è individuare quei livelli di prezzo al di sotto dei quali il quadro grafico darebbe i primi segnali di cedimento. Per quello che riguarda l’indice Ftse Mib della Borsa italiana sarebbero discese al di sotto di area 18.300, massimo del 30 aprile toccato dall’alto con funzione di supporto il 15 giugno, a fare temere l’avvio di una discesa ampia. Nel caso dell’indice tedesco Dax potrebbe invece essere la violazione a 12.030 circa della media mobile esponenziale a 100 giorni a indicare come probabile il proseguimento della fase ribassista intrapresa dal top del 21 luglio. Osservando il grafico dell’indice Eurostoxx 50 il punto di non ritorno di una fase di ripiegamento lo si può individuare nel minimo del 15 giugno a 3054 punti: sotto quei livelli le oscillazioni viste dal picco dell’8 giugno si dimostrerebbero un pericoloso “doppio massimo”, figura ribassista che potrebbe accompagnare le quotazioni in una discesa almeno fino al minimo di meta’ maggio a 2.708 punti.
Situazione molto simile per l’indice statunitense S&P500: discese al di sotto del minimo del 15 giugno a 2.965 costringerebbero a considerare i movimenti visti dal top dell’8 giugno una figura ribassista. L’indice si è lasciato alla spalle numerosi gap sulla via del rialzo e potrebbe decidere di andarli a ricoprire prima di guardare nuovamente ai massimi di febbraio. Il primo di questi vuoti si colloca a 2.865 punti (gap del 18 maggio) ma ce n’è anche uno molto evidente a 2.538 punti, lasciato il 6 aprile.
A guidare il sentiment degli investitori sarà però più di tutti probabilmente l’andamento dell’indice Nasdaq Composito, campione di performance quest’anno, l’unico dei panieri citati che è stato capace di lasciarsi alle spalle con il rialzo nato dai minimi di marzo i massimi di febbraio. Sul grafico del Nasdaq è comparso un doppio massimo in area 10.825 (due massimi allineati sugli stessi livelli) a partire dal 13 luglio. La violazione del minimo del 14 luglio a 10.182 completerebbe la figura e alimenterebbe il dubbio che la cavalcata rialzista sia giunta al termine. Discese al di sotto del picco del 19 febbraio a 9.838 punti confermerebbero poi il rischio di essere in presenza di qualche cosa di più grave di una semplice correzione tecnica di durata limitata.