Covid-19, come siamo cambiati (noi medici)

Nell'affrontare l'emergenza Covid-19 in ospedale, nessuno ha potuto avere cura dei pazienti indipendentemente dal collega, che fosse più o meno esperto

Scriveva circa a metà dello scorso marzo, in un biglietto, il collega Direttore del Dipartimento di Anestesia, Rianimazione, Emergenza e Urgenza degli Spedali Civili di Brescia: “Era necessario che l’eroico diventasse normale, quotidiano, e che il normale, quotidiano, diventasse eroico”. Una frase di San Giovanni Paolo II riferita a San Benedetto mi è riemersa nella memoria all’inizio dell’epidemia Covid-19. Mi sembra che l’impegno richiesto a noi medici, infermieri, operatori sanitari, ma anche a ogni singolo cittadino, si riassuma in questa affermazione. Non è l’esaltazione della persona come eroe, ma la straordinarietà dell’evento, oggi è la pandemia Covid-19, che chiede all’uomo, al professionista di superare i propri limiti, i propri egoismi, i propri interessi per arrivare ad affermare che siamo capaci di guardare al di là del nostro limite. Viviamo questa esperienza in modo “eroico”. Consapevoli che in questa prova si gioca non solo una capacità di efficienza e di efficacia ma il vero senso dell’umano.



Oltre 3.200 pazienti sono stati trattati con punte di presenza massima nell’Azienda Sociosanitaria territoriale degli Spedali Civili di Brescia con oltre 900 pazienti contemporaneamente presenti.  Spedali Civili sono risultati essere la struttura del SSN che ha accolto più pazienti Covid-19 del nostro Paese e, quasi sicuramente, d’Europa. Di fronte a pazienti con la più diverse condizioni cliniche, affetti da un quadro sconosciuto, ma con presentazione clinica inizialmente non chiara e spesso sfumata, ma sempre più grave e urgente nella presentazione, tutto il personale ha lavorato insieme senza più guardare alle appartenenze alle diverse unità operative dell’Azienda e/o Universitaria o al “grado gerarchico” collaborando, imparando gli uni dagli altri, perdendo la nozione del tempo, staccandosi per lunghi periodi dalla propria famiglia per proteggerla, diventando famiglia acquisita per i pazienti ricoverati posti in isolamento strettissimo, adottando pratiche di “pietas” per i defunti. Uno spettacolo professionale e di umanità che ha stupito ciascuno e ha evidenziato la cifra di cui la nostra  Azienda è costituita.



La terapia dell’infezione da Sars-CoV-2 rappresenta ancora oggi una tematica controversa e sottoposta al vaglio della comunità scientifica internazionale in quanto solo recentemente sono stati resi disponibili i primi trial terapeutici controllati finalizzati alla valutazione dell’efficacia delle singole molecole sinora proposte. L’infezione non causa in tutti i soggetti infetti le stesse manifestazioni cliniche, che possono variare dalla completa asintomaticità a quadri gravi fino all’insufficienza respiratoria acuta e alla morte in rapporto spesso a variabili quali l’età, le co-morbilità di cui possono soffrire i singoli individui e probabilmente la carica virale infettante.



Inoltre, nei soggetti che progrediscono verso i quadri clinici più avanzati, la patologia segue un decorso multifasico, che inizia con una fase virale cui segue una risposta immunitaria disregolata che è responsabile dei quadri clinici più gravi, soprattutto a carico dell’apparato respiratorio, del cuore, dei reni, della coagulazione e di altri organi e sistemi corporei.

Professionisti, insieme. Il panorama terapeutico è stato ed è dunque complesso e variegato nei singoli individui e nelle differenti fasi di malattia. Presso gli Spedali Civili di Brescia, un team multi-disciplinare costituito da medici ospedalieri e universitari dell’Università degli Studi di Brescia ha contribuito in maniera significativa alla produzione di dati scientifici finalizzati alla definizione di standard diagnostici e terapeutici condivisi in un momento emergenziale dove questi erano del tutto assenti.

L’approccio terapeutico dell’infezione da Sars-Cov-2 non si è limitato alla terapia antivirale (idrossiclorochina, remdesivir) o anti-infiammatoria (desametasone, tocilizumab), ma si è esteso a comprendere, prevenire e trattare le complicanze tromboemboliche, cardiovascolari, neurologiche e nefrologiche che spesso rappresentano delle temibili evenienze cliniche in questi pazienti. 

L’équipe multidisciplinare ha messo a punto uno score di gravità dell’insufficienza respiratoria denominato Brescia Covid Respiratory Severity Scale che ha avuta ampia diffusione internazionale. Inoltre, gli Spedali Civili di Brescia hanno partecipato in maniera significativa a fornire risposte scientifiche relative alla necessità che i farmaci anti-ipertensivi inibitori del sistema renina-angiotensina (ACE inibitori, sartani, sacubitril valsartan) e i beta-bloccanti non siano sospesi durante infezione da Sars-Cov-2 di grado lieve e moderato. In considerazione del rischio di trombosi arteriose e venose associato alla malattia da Sars-Cov-2 è inoltre consigliato l’uso di eparina a basso peso molecolare per via sottocutanea a dosi profilattiche. Il lavoro dei ricercatori degli Spedali Civili di Brescia e dell’Università di Brescia ha consentito di acquisire elementi clinici e patogenetici innovativi sulla predisposizione a sindromi encefalitiche nei pazienti Covid, che ha permesso un trattamento innovativo ed efficace.

Un problema educativo.

Alcuni coordinatori infermieristici hanno sottolineato: ” … (omissis) Quindi, il punto è questo, trattare l’emergenza Covid-19 con un linguaggio bellico, trattare la malattia come fosse una guerra, ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. Parlare di guerra, di invasione, di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dalla idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne. Non è una guerra e questo di oggi è il tempo della vicinanza e della solidarietà e noi, i nostri collaboratori, e tutti i professionisti impegnati nell’emergenza Covid-19 lo abbiamo capito da subito e, da subito, ci siamo aiutati e sostenuti. Nessuno di noi è stato obbligato, nessuno di noi ha ricevuto ordini di servizio (né verbali, né scritti)”.

L’esposizione dei professionisti, medici, infermieri, operatori sociosanitari a pazienti completamente nuovi e con quadri nosologici non definiti ha obbligato tutti a porsi di fronte al bisogno di sostenersi e correggersi. Nessuno ha potuto avere cura dei pazienti indipendentemente dal collega, che fosse più o meno esperto, ospedaliero o universitario, medico o infermiere. Ognuno ha imparato da tutto e tutti e l’impegno con la realtà ha prevalso sugli schemi standard. Non ne è nato un modello, ma un modo di guardare al paziente e tra colleghi teso allo scopo della cura. 

Ci si chiede: ma non dovrebbe essere sempre così? In altri termini, non dovrebbe essere centrata – la cura – solo sul paziente e il suo bisogno di salute? Quello che, al di là delle polemiche legate alla gestione della pandemia, ci interessa evidenziare è che la vera normalità della cura è che ciascun professionista si deve cimentare quotidianamente con il mistero della vita e della morte e non solo nei casi estremi o emergenziali. La  posizione libera di fronte all’imprevisto che accade fa scatenare la libertà che diventa creatività, scienza, cura, che mette insieme e unisce. Tale posizione umana e professionale risponde alla concretezza del bisogno della persona in quel momento, alla società e all’indomabile desiderio di chi opera in sanità di ri-comprendere ogni volta il significato del proprio agire. È all’altezza dell’Uomo.

Nessuno si salva da solo. Nessuno salva, da solo. Sarebbe un peccato gravissimo sprecare quanto accaduto – e sta ancora accadendo – non accogliendone dalla drammaticità una provocazione per il cambiamento.

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