Parto da un fatto di cronaca. Nel momento in cui scrivo, non si hanno notizie di Viviana Parisi, la giovane donna scomparsa nel nulla con il figlio piccolo nel Messinese. Ancora non sappiamo che cosa sia successo, salvo il fatto che sono spartiti, ma speriamo possano essere ritrovati presto, sani e salvi.
Secondo fonti di stampa la donna, profondamente ferita dal lockdown, stava attraversando una fase depressiva e avrebbe postato qualche settimana fa su Facebook un messaggio, a mio parere, molto interessante: “Non ho più niente, ma pian piano se arrivano alcune serate – fa di professione la dj, come il marito – vorrei riprendermi il mio passato per andare avanti con il presente e il futuro. Se Dio vuole, riprendere un po’ la mia vita lavorativa per vivere, per ritornare nella famiglia, per condividere di nuovo tutto”.
Queste parole rispecchiano, a mio avviso, quello che può essere uno stato d’animo diffuso a causa della pandemia. Nell’incontro tenuto per la “Repubblica delle idee”, Massimo Recalcati parlava di trauma a proposito del coronavirus, con la sua principale caratteristica di imprevisto assoluto, del tutto inatteso, che produce un evidente taglio nell’esistenza, separando il prima dal dopo. Tra le forme di angoscia che nascono da questo, ne sottolinea una, che lui definisce depressiva, rivolta stranamente al futuro, non più foriero di possibilità; qualcosa, potremmo dire, di altrettanto evanescente e minaccioso come il virus.
L’uomo vive normalmente orientato al futuro, che, pur nell’incognita che porta con sé, viene quasi sempre immaginato come novità. Ora invece siamo di fronte, per così dire, a un capovolgimento dei tradizionali parametri antropologici: si volta la faccia all’indietro, non vedendo alcuna possibilità di procedere, alcun ponte verso l’avvenire. Non a caso la donna desiderava ritornare a Torino dai suoi genitori, sperando forse di ritrovare la spinta generativa di quando era bambina.
Questo sentimento, dicevo, può essere molto diffuso, anche quando non sfocia in episodi di cronaca, come nel caso citato. Sarebbe forse l’effetto più maligno del virus, perché inocula nelle vene il terrore di andare avanti; Recalcati parlava anche di angoscia del cambiamento per indicare questo stato di fuga dalla vita, che si è fatta improvvisamente innaturale, distanziandosi da se stessa. Mi sembra, in fondo, il correlato antropologico del distanziamento sociale: non ci si può avvicinare gli uni agli altri, se non con tutte le cautele dettate dall’emergenza.
Questo può portare ad allontanarsi da sé, simbolicamente abbandonando l’auto sul ciglio di una strada, in fuga da quel lago oscuro che uno ha dentro: “Notte oscura. In ogni cosa, solo ciò che ci arriva da fuori, gratuitamente, di sorpresa, come un dono del destino, non cercato, è gioia pura. Analogamente, il bene reale non può arrivare che da fuori, mai da un nostro sforzo. Non ci è possibile mai, in nessun caso, creare qualcosa migliore di noi. […] È solo dopo una tensione lunga e sterile, in cui si finisce nella disperazione, quando non ci si aspetta più nulla, che da fuori, meravigliosa sorpresa, arriva il dono”. Questo pensiero di Simone Weil, che dedico a questa donna sconosciuta, esprime bene, io credo, anche la speranza, unica possibile via d’uscita.