MINNEAPOLIS – Joe Biden e Kamala Harris, come da copione. C’era una short list di personaggi più o meno presentabili, anche se scarsamente noti al grande pubblico, personaggi che avrebbero potuto far parte del cosiddetto “ticket presidenziale”, ovvero la squadra democratica che a novembre tenterà di sconfiggere Trump. Da Keisha Lance Bottoms, battagliera sindaca di Atlanta, a Val Demings, deputata della Florida, fino ad Elizabeth Warren, già aspirante alla candidatura presidenziale, la paladina della redistribuzione della ricchezza (il vero Don Chisciotte di questa lotta era senz’altro il vecchio Bernie Sanders, ma anche la Warren non scherzava).
Dunque nomi ce n’erano, e la Warren probabilmente sarebbe stata la più capace di entrare da subito nel merito delle “cose presidenziali”. Ma per le ferree leggi dell’ideologia libertaria (sì, è una contraddizione), la compagna di avventura di “Sleepy Joe” doveva per forza essere non solo donna ma anche di colore. Questo è quanto oggi come oggi l’ortodossia democratica impone. Sesso e razza, due caselle da riempire “a prescindere”, prima ancora che si cominci a ragionare sulle virtù dei candidati.
Perché ormai il modo in cui si ragiona è che è giunta finalmente l’ora in cui le donne devono votare necessariamente una donna, e le persone di colore una candidata di colore. Così la scelta è caduta sulla senatrice californiana. Perché? Sesso femminile, colore della pelle come da prerequisiti. Ma cosa rende Kamala Harris vincente rispetto agli altri personaggi?
Forse un paio di elementi. A differenza delle altre la Harris l’abbiamo già vista, siamo in grado di riconoscerla. In un mondo di 330 milioni di persone questo conta. Non è un volto sconosciuto ed un nome completamente ignoto, avendo l’ex procuratrice generale della California calcato il palcoscenico dei primi dibattiti tra democratici, e avendolo fatto con vigore.
In realtà il suo approccio alla candidatura presidenziale è stato come una bolla di sapone: venuta fuori dal niente, si è messa in bella mostra, scintillante, per poi scomparire con la stessa velocità con cui era comparsa. Il tutto senza neanche affrontare il test di una tornata di primarie. Quindi in verità nessuno sa se la Harris piaccia o meno, se davvero possa riscuotere in maniera significativa le simpatie (e i voti) degli afroamericani. Ma, come accennavo, la sua comparsa in pubblico sebbene di breve durata, ha lasciato il segno, e lo ha lasciato soprattutto sulle guance di Joe Biden, messo brutalmente alle corde nel corso di un dibattito del giugno 2019 proprio su una spinosa questione razziale.
Ed ecco, forse, il secondo fattore: quell’unità di partito che non esiste e di cui i Democratici hanno disperato bisogno. Una unità che sembra avere come unica possibile fonte coagulante il comune nemico, Donald Trump. Kamala e Joe si sono affrontati, hanno combattuto, hanno evidenziato le loro differenze, si sono fatti del male, ma ora è giunto il tempo del grande abbraccio…. scordiamoci il passato e sconfiggiamo il già traballante Trump. E per enfatizzare la scelta, per dar più peso elettorale possibile alla candidatura della Harris, e credo anche per rassicurare gli elettori che lo vedono reggersi a malapena in piedi, Biden ha detto chiaramente che la vicepresidente dovrà essere pronta dal primo giorno a fare il presidente.
In questi tempi così difficili e misteriosi, con coronavirus ed economia lasciati a se stessi, c’è qualcuno che ci sa offrire qualcosa di più che mosse ideologiche?
God bless America!