La crisi di popolarità del Presidente Usa, dovuta (anche) alla gestione confusa dell’emergenza legata alla pandemia, spiega la recrudescenza della politica del pugno di ferro nei confronti della Cina; quando le cose non vanno troppo bene, si sa, bisogna sempre incolpare qualcuno, o almeno trovare un capro espiatorio, se non altro per distrarre l’attenzione dai problemi interni.
Si innesta in questa logica, a mio avviso, la dichiarazione di guerra contro l’app TikTok. Il decreto firmato nei giorni scorsi da Donald Trump obbligherebbe la multinazionale cinese ByteDance a vendere la partecipazione nelle operazioni di TikTok negli Stati Uniti, probabilmente a Microsoft o a Oracle; diversamente, decorsi 45 giorni, chi continuerà a fare affari con TikTok sarà soggetto a sanzioni. Anche la diffusissima app cinese WeChat sarebbe presto vietata. Alla base della decisione, davvero senza precedenti, ci sarebbe un uso dei dati personali degli utenti da parte della Repubblica Popolare, con possibili manipolazioni e conseguenti campagne informative (o disinformative); dunque, secondo Trump, motivi di sicurezza nazionale avrebbero spinto in questa direzione.
A dire il vero, il problema si era già presentato a inizio luglio, quando l’India ha protestato duramente contro il Governo cinese, accusato di utilizzare i dati degli utenti indiani, rappresentando, quindi, una minaccia per la sicurezza del Paese, tanto da indurre ByteDance a valutare il trasferimento della sede fuori dalla Cina. Stabilire la sede in un Paese Ue, ad esempio, dove la regolamentazione sulla protezione dei dati è senza dubbio all’avanguardia, forse servirebbe, benché i dati possano essere trattati in server situati in altri Paesi, con il solo vincolo di garantire le medesime tutele nel trattamento, cosa, del resto, non agevolmente accertabile, visto che il server potrebbe essere dislocato ovunque.
Come alcuni esperti hanno notato, la decisione di Trump imprime una forte accelerazione alla “guerra fredda tecnologica” fra Usa e Cina. Le armi con cui oggi si combatte non sono (solo) quelle pesanti e il terreno di scontro non sempre è uno spazio fisico delimitato. Il possesso dei dati e la velocità dei sistemi di aggregazione e disaggregazione di essi (big data) rappresenta il vero punto di svolta, quasi una nuova avanguardia, culturale ed economica: la materia prima offerta dai dati è potenzialmente inesauribile e consente di generare e rigenerare espressioni informative e performative, non di rado difficili da verificare, essendo divenuto il riferimento alla verità un esercizio pressoché inutile e obsoleto. Del resto, la possibilità di trattare i dati ovunque li rende disponibili a Governi e legislazioni locali, che, per quanto democratiche, ne possono disporre, sia pure con le dovute cautele, in Cina come negli Stati Uniti; obiettare che la Cina non è un sistema democratico è inutile, quando alla radice si pongono problemi di sicurezza nazionale.
La vera sfida del digitale, pertanto, si svolgerà su un terreno squisitamente culturale e antropologico, come acutamente osservato dall’ex Presidente del Garante della Privacy, Antonello Soro, nel corso di un’intervista dello scorso maggio, relativa alla tutela della persona nella dimensione digitale: “La vera difficoltà da affrontare è quella di comprendere quale sia il grado di limitazione dei diritti strettamente necessario a garantire questo scopo, comprimendo le libertà quel tanto (e nulla di più) che sia ritenuto indispensabile. Entro questo confine, nel doveroso e costante bilanciamento tra diritti contrapposti, si realizza la virtuosa sinergia tra le istanze personaliste e quelle solidariste che sono tra le più nobili radici della nostra Costituzione. Mai come oggi la protezione dei dati si rivela indispensabile, poiché rappresenta il punto di equilibrio tra libertà e tecnica, tra persona e società, il presupposto della tenuta della democrazia anche in circostanze eccezionali”.