Il vero argine alla pandemia

Il Sistema sanitario regionale della Lombardia è riuscito a reggere l'urto della pandemia grazie soprattutto ai suoi medici e infermieri

I dati ufficiali di Regione Lombardia (al 16 agosto), parlano di 97.380 contagi, 75.163 dimessi/guariti, 16.840 decessi dall’inizio della pandemia. Attualmente vi sono ancora 5.377 positivi, di cui 160 ricoverati e solo 13 in terapia intensiva. Da questi numeri è facile capire quanto sia stato devastante lo “tsunami” determinato dalla pandemia Covid-19 per il Sistema Sanitario regionale (SSR) e, insieme, a quale sfida abbia dovuto far fronte nei mesi tra febbraio e maggio.



A distanza di tempo dalla fase acuta della pandemia, spesso dimenticando che si è combattuta una patologia per lo più sconosciuta, che ha colpito con una forza e una intensità che ha sorpreso tutti, “esperti” compresi, si è aperto un grande dibattito circa la tenuta del SSR, spesso criticandone i principi cardine. Ricordo, in breve, che il cosiddetto “modello lombardo”, sino a questo momento riconosciuto da tutti come un sistema efficace di organizzazione dei servizi sanitari alla persona, erano e sono semplici. Esso si è fondato su:



1) La libertà di scelta del luogo di cura da parte del cittadino;

2) Il coinvolgimento dei soggetti privati (circa il 40% a tutt’oggi) nel Sistema sanitario regionale a condizioni dettate da precisi criteri di accreditamento;

3) La distinzione dei ruoli tra Aziende Ospedaliere e ASL, quest’ultime con il compito di acquistare e controllare la qualità delle prestazioni offerte.

I risultati ottenuti negli ultimi 20 anni in campo sanitario (valga per tutti, come esempio, il livello raggiunto nel trattamento delle patologie oncologiche, in quelle cardiovascolari e il sistema di emergenza-urgenza), sono evidenti a tutti, soprattutto ai pazienti: sono il frutto di un approccio culturale che ha cercato di tradurre nell’organizzazione dei servizi il principio della responsabilità (libertà di scelta, aziendalizzazione), un concetto di “pubblico” non ridotto a statale (“sistema misto” in un’ottica sussidiaria), coinvolgendo soggetti già presenti nella ricchissima tradizione di assistenza della società lombarda.



Ma esiste un altro fattore, risultato decisivo durante la pandemia, spesso dimenticato. Il rapido incremento del contagio e la severità della malattia ha costretto a trasformare rapidamente strutture specialistiche in strutture dedicate a pazienti Covid-19. Ogni singolo professionista è stato coinvolto, e nessuno è fuggito. Chirurghi sono tornati a scuola da colleghi, per gestire l’insufficienza respiratoria, specialisti diversi hanno supportato internisti, pneumologi, rianimatori e cardiologi nell’applicazione dei supporti non invasivi alla ventilazione, così anche per il personale non medico. Paradossalmente, pur dovendo spesso limitare il proprio intervento a terapie di supporto, e a dover accettare che l’outcome del malato largamente dipendesse dalle sue condizioni di presentazione, hanno deciso di combattere la malattia e di cercare di assistere tutti i pazienti (senza alcuna selezione) con intelligenza, rischiando personalmente. Per molti professionisti la pandemia è stata l’occasione per riscoprire con chiarezza lo scopo e la bellezza del proprio lavoro, così ben espresso dal motto: “Guarisci qualche volta, tratta e cura il più possibile, assisti sempre”.

La motivazione, la professionalità, la responsabilità e la dedizione di medici e infermieri, hanno consentito al SSR di reggere l’urto della pandemia, occorre che la politica e le istituzioni riconoscano questo fattore come quello decisivo.

La vera sfida per la Lombardia si gioca paradossalmente nel riprendere un percorso iniziato, rimanendo attaccati ai principi “cardine” della Legge Regionale 11 luglio 1997 n. 31, ma avendo il coraggio di portarla a compimento, attraverso un dialogo da riaprire con il mondo professionale.

L’esperienza fatta durante la pandemia certamente richiederà un ripensamento dell’offerta ospedaliera e territoriale, in una logica di “rete” e di percorsi di cura, con la necessità (non prorogabile) di recuperare a un ruolo vero le ATS, e un nuovo modello per la medicina territoriale, ma non potrà avvenire senza un coinvolgimento dei professionisti.

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