Prima di occuparci di cose serie, mi permetterete una divagazione sulla cronaca. Di mio, auguro ad Aleksej Navalny una lunga vita. E altrettanto per quanto mi riguarda, il mio modo di interpretare il ruolo del giornalista poco si concilia con la potenziale simpatia per un regime come quello bielorusso. Insomma, diciamo che con un Lukashenko al potere, durerei a piede libero un paio di giorni. Forse meno. Detto questo, smettiamola di prenderci per i fondelli. Perché Vladimir Putin avrebbe dovuto ammazzare un oppositore che, dati Bloomberg relativi all’ultima campagna elettorale, in patria non superava il 5% dei consensi e che infiamma il cuore soltanto dei liberal occidentali in cerca di martiri veri o presunti del regime russo? In questo momento, poi, dopo essersi palesemente schierato a favore del regime di Minsk contro le interferenze dello stesso Occidente sull’esito del voto bielorusso.
Tutto si può dire di Vladimir Putin, tranne due cose. Primo, il fatto che non sappia leggere le situazioni e attendere, quando c’è da farlo. Secondo, la capacità di farti fuori. Non giriamoci attorno: per le cronache Aleksej Navalny sarebbe già stato vittima di un avvelenamento 16 mesi fa, durante la sua carcerazione. Volete dirmi che il terribile capo del Cremlino si affida a gente incapace di eliminare un oppositore per ben due volte, sapendo dell’eco mediatica che la cosa avrebbe suscitato? Volete dirmi che un bell’infarto indotto, proprio durante la carcerazione, non sarebbe stato più semplice, tramite un’iniezione? Ora, poi, ecco il colpo di teatro: ancora in coma e a due giorni dal presunto avvelenamento di regime, il buon Navalny ottiene a tempo di record l’asilo politico in Germania e viene trasferito via aerea. Sarà. Ma qualcosa, a mio avviso, sa un po’ troppo di cinematografico. Non a caso, dopo le prime 24 ore di strepiti, anche le reazioni indignate del mondo paiono placate. Così come l’attenzione morbosa verso Minsk e la sua opposizione che chiede aiuto al mondo libero, ovviamente dall’esilio raggiunto a tempo di record (e chissà garantito logisticamente da chi). Sarà, ma Nelson Mandela si è fatto la galera in patria per le sue idee e Bobby Sands è morto di fame in un carcere britannico: stranamente, le rivoluzioni – colorate o primaverili, poco cambia – sotto diretto controllo del Dipartimento di Stato hanno invece sempre a che fare con soggetti esteri o eterodirezioni di vario genere.
Una cosa, a mio avviso, appare certa: in tutta questa faccenda, in questo patetico sequel del caso Russiagate con altri protagonisti e comparse in gioco, l’Unione europea si è mossa malissimo. Perché una cosa è la difesa dei diritti umani e civili, un’altra la diplomazia posta in essere con il principio dell’accetta. Non solo l’Ue ha disconosciuto il risultato elettorale bielorusso con oltre 10 giorni di ritardo rispetto all’esito del voto del 9 agosto, ovvero solo dopo le proteste di piazza e la repressione e non in base a proprie evidenze su brogli o irregolarità. Ma, soprattutto, nel corso del Vertice ad hoc della scorsa settimana ha compiuto il passo senza precedenti di stanziare 53 milioni di euro finalizzati “all’aiuto verso la transizione democratica”. Di fatto, si finanzia l’opposizione uscita sconfitta dalle urne di un Paese terzo e sovrano, pur non portando a riprova del proprio atto alcuna prova di avvenuto abuso a livello di processo elettorale. E, sempre di fatto, si ritiene aprioristicamente illegittima la figura di Lukashenko, riconoscendo di fatto l’esistenza di un processo di transizione già in atto e degno di stanziamenti monetari.
Diciamo che la diplomazia è un’altra cosa. Non a caso, dopo gli strepiti delle prime ore, nelle notte fra venerdì e sabato, Mike Pompeo avrebbe inviato suoi emissari a Mosca. L’Europa, invece, si è ben guardata dal porre rimedio anche solo parziale al suo colossale passo falso. A cui, attenzione, sta per seguirne un altro. Perché proprio il capo del Dipartimento di Stato Usa ha attaccato la scelta europea di non sostenere la richiesta di azione in sede Onu avanzata dagli Stati Uniti per le restaurazione totale delle sanzioni contro l’Iran, arrivando a dichiarare che “in questo modo i leader europei fiancheggiano gli ayatollah”. Il problema vero non è la transizione bielorussa, bensì quella estremamente difficile in seno al potere post-Merkel in Germania. È Berlino a non sapere più come barcamenarsi fra il ruolo di partner commerciale e strategico storico con Mosca (vedi Nord Stream 2) e la necessità di riallineamento atlantico verso Washington, stante i profili politici patetici che si stagliano all’orizzonte dopo l’addio della Cancelliera (vedi l’immediato asilo concesso a Navalny, altra mossa da elefante in cristalleria).
Ma attenzione. Proprio mentre l’Europa si preoccupava di seguire il decorso del coma dell’oppositore dello Zar, ecco che a Mosca accade qualcosa di sistematicamente e strategicamente molto più interessante. Come riportato da Moscow Times e Kommersant, Expobank avrebbe erogato il primo prestito verso un soggetto privato con criptovaluta come collaterale. Beneficiario della linea di credito sarebbe l’imprenditore Mikhail Uspensky e la banca, attraverso una sua portavoce, ha immediatamente rivendicato la scelta come “un precedente in atto sia per la comunità legale che per quella bancaria”.
E il perché è presto detto. Formalmente, la Russia è uno dei pochi Paesi ad avere una sua legge per la regolamentazione della criptovaluta e del suo utilizzo, varata proprio all’inizio di questa estate e destinata a entrare in vigore il prossimo anno. Una legislazione particolarmente restrittiva, perché formalmente vieta a cittadini e aziende di utilizzare le criptovalute come forme di pagamento. Ecco arrivare però, in tempo per garantire ad altri soggetti di seguire e migliorare l’esempio all’interno di un framework legale, la mossa di Expobank, la quale si dice certa della liceità del suo metodo di aggiramento della legge, garantito dal fatto che l’utilizzo di criptovaluta sia limitato al processo di collateralizzazione della garanzia e non del pagamento diretto di un bene o servizio. Di fatto, le criptovalute che entrano in gioco nel processo sono classificate come “proprietà”. E non pagamento.
Una notizia, quella giunta venerdì mattina dalla Russia che non ha avuto eco in Europa. Ma che, come mostra questo grafico, ne ha avuto e parecchio a Wall Street, dove uno dei tokens principali della cosiddetta DeFi come Yearn.Finance ha letteralmente preso il volo. ChainLink, NXM e Datamine, ovviamente, non sono stati da meno.
Ma cosa significa DeFi? Fondamentale. Significa Decentralized Finance. Ovvero, un mondo parallelo di transazioni finanziarie non dipendenti dalle istituzioni classiche, a partire dal sistema bancario, ma dal processo riconducibile al blockchain. E a dimostrare come questa rivoluzione, la quale ha appena vissuto il suo atto prodromico nel quadro della legalità in quanto accaduto a Mosca, sia qualcosa che agita non poco i sonni a Wall Street e al Treasury ci ha pensato non più tardi della settimana scorsa una Bibbia laica del mercato come Forbes, la quale ha dedicato l’articolo principale al fenomeno. Insomma, perché vivere in un mondo dove aprire un conto corrente mi richiede tempo e un’infinità di dati sensibili e documenti da presentare, quando esiste un sistema parallelo – basato su una valuta parallela – che mi libera da ogni vincolo diretto di sudditanza da entità sovranazionali e autoreferenziali, quali appunto le banche commerciali classiche? O, peggio, quelle Centrali.
Non a caso, JP Morgan e Goldman Sachs hanno dato vita a unità operativa sulle criptovalute, di fatto il germe di un interesse che potrebbe divenire immediatamente operativo verso una “propria” moneta virtuale, in caso venisse varcato del tutto il Rubicone della valuta fiat come unico benchmark di scambio globale riconosciuto. Insomma, nuovi e illimitati sistemi finanziari gestiti e operati tramite blockchains e contratti smart, senza cavilli o clausole capestro: dentro o fuori, guadagni o perdi, vivo o muori. Senza intermediazione. E, soprattutto, senza possibilità di manipolazione. Come quella strutturale che le valute fiat, dollaro in testa ma anche euro e yen, stanno vivendo proprio a causa della sempre più sistemica dittatura dei regimi di Qe monetario, destinati ovviamente e per stessa ammissione delle parti in causa a divenire perenni. E a estremizzarsi ulteriormente, se si arrivasse del tutto alla logica dell’helicopter money.
Ora, guardate quest’altro grafico, relativo alla chiusura di Wall Street, sempre di venerdì 21 agosto: casualmente, qualcuno ha sentito il bisogno di affossare Bitcoin ed Ethereum in maniera netta. Più del trend dei giorni precedenti. Quasi un colpo di grazia, un qualcosa di eclatante e che si faccia notare, nel giorno dell’ennesimo record al rialzo rotto dallo Standard&Poor’s 500. Tanto da spingere alcuni analisti a sancire addirittura la fine di quello che era già stato definito il DeFi boom.
Vi pare che, anche soltanto dal punto di vista temporale e di nesso causale, tutto questo possa essere frutto soltanto di una combinazione, la solita coincidenza? Attenzione, perché sull’asse Mosca-Pechino si comincia a fare sul serio, a partire dalle de-dollarizzazione degli scambi passando per la diversificazione in oro fisico delle riserve e fino alla risposta strategica a quelle che vengono lette come mosse “aggressive” dell’espansionismo Nato verso Est, in terra come nel Mare Cinese. Pensare infatti che Mosca non difenda strenuamente la Bielorussia, ultimo bastione di difesa naturale dell’ex impero sovietico dai satelliti atlantici di Lituania e Polonia, appare miope. O in malafede. Scegliete voi a quale chiave di lettura agganciarvi, ma quando un cantore delle cause eterodirette di Washington come Bernard Henry-Lévy invita l’Europa “ad aiutare questa nuova rivoluzione di velluto, l’ultima scossa di assestamento di quel terremoto che fu la caduta del Muro”, forse è il caso di porsi qualche domanda. Prima di ritrovarci davvero come un vaso di coccio fra vasi d’acciaio. E fare una brutta fine, a cavallo e senza altra opzione fra l’ipotesi di spartizione o colonizzazione per procura geopolitica. E di interesse.