Nella rivisitazione della finale di Champions League che Giampiero Mughini ha fatto per Dagospia si leggono toni particolarmente rassegnati: riassumendo, il fatto che Psg e Bayern Monaco giochino un altro sport, molto più veloce e combattuto nei 90 minuti sul terreno di gioco, si legge di “intelligenza, sapienza tattica, forza, esplosività” e che in questo calcio fanno un’ottima figura giocatori che hanno calcato i campi della nostra Serie A, ma che poi sono stati dati via – gli esempi sono Thiago Silva e Ivan Perisic, ma noi potremmo citare anche Philippe Coutinho, Marquinhos e il matchwinner Kingsley Coman; in effetti non erano pochi al Da Luz. Interpreti che noi oggi non possiamo permetterci: da juventino, Mughini sostiene che l’anno prossimo la Champions League non potrà più essere citata tra gli obiettivi della Vecchia Signora, che lui personalmente comprerebbe al volo Angel Di Maria e che è rammaricato ripensando all’estate del 2012, quando il Psg mise sul piatto più soldi per accaparrarsi un Marco Verratti che era quasi bianconero.
FINALE CHAMPIONS LEAGUE: LE STORIE DI PSG E BAYERN
E ancora: “Con il 160% di debito pubblico, dobbiamo essere cauti a tirar fuori milioni di euro”. Tanto più, prosegue, che non ci sono sceicchi e arabi che possano pagare di tasca loro acquisti ingenti. Insomma, il quadro è di quelli sconfortanti; tuttavia un distinguo lo dobbiamo fare. Se è vero che Nasser Al Khelaifi – lo dicevamo nei giorni scorsi – ha speso oltre un miliardo, è altrettanto vero che quella di domenica sera è stata la prima finale di Champions League nella storia del Psg, e che la stessa squadra (o comunque molto simile) ha conosciuto delusioni internazionali ben peggiori di quelle che sono toccate alle nostre rappresentanti (l’attuale proprietà non aveva mai raggiunto una semifinale, per intenderci). Se è vero che oggi l’Italia “non produce i soldi di che comprare Lewandowski o Mbappé”, e che il nostro campionato non conosce più quello splendore che ne aveva fatto il torneo più bello e ricercato al mondo, bisogna controbilanciare dicendo che il Bayern Monaco rappresenta un caso totalmente a parte. Perché viene citato come pietra angolare del calcio tedesco, ma a oggi rimane l’unica squadra capace di primeggiare in Europa con una certa costanza.
Nessuna connazionale del Bayern ha i suoi numeri: non li ha il Borussia Dortmund, che dal 1997 a oggi ha giocato due finali di Champions League (vincendone una), non li hanno squadre storiche (dal Colonia al Borussia Monchengladbach che nel tempo sono sensibilmente calate) né le nuove realtà che hanno nel frattempo preso il sopravvento; non li ha per il momento il nuovo Lipsia, che ha alle spalle un colosso come Red Bull e ha certamente fatto passi da gigante, ma che bisognerà attendere al varco nelle prossime stagioni. Il Bayern, questo è vero, è sempre stato un modello e lo scrivevamo anche su queste pagine sette anni fa, con la squadra in procinto di vincere la quinta Champions League; ma è un modello innanzitutto di lungimiranza, perché ha saputo piazzare vecchie glorie nei ruoli chiave e sviluppare prospetti arrivati dal settore giovanile. Di acquisti sensazionali, il Bayern non ne ha poi fatti tantissimi: oggi ricordiamo senza dubbio Manuel Neuer e Robert Lewandowski tra questi, ma per esempio Leon Goretzka non era il giocatore che è diventato in Baviera e altri, da Thomas Muller a Joshua Kimmich passando per Serge Gnabry, sono arrivati giovanissimi (e dunque pagati molto meno) o sono cresciuti nel vivaio. Perchè li ha presi il Bayern? Non certo perchè aveva i soldi che non avevano altre (la clausola di Gnabry valeva 8 milioni, Goretzka è arrivato a zero), ma perchè è stato lungimirante.
IL MODELLO DA SEGUIRE
Perciò, dal punto di vista di chi scrive, il problema non è paragonare il calcio italiano a quello straniero sulla base di risultati del momento, né dire che noi economicamente siamo messi male in senso assoluto: perché è così? Sempre parlando di Germania, nel 2013 (derby a Wembley in finale) il modello tedesco era stato celebrato da più parti facendolo passare per quello vincente. Come sempre accade: succede un fatto, quel fatto viene preso per assolutizzare un brand. Nel mondo dello sport, si vive spesso e volentieri del giorno stesso. Poi, della Germania calcistica non si è più parlato: sfido, fino a ieri non erano più arrivati in finale mentre intanto la Juventus ne giocava due, e la Spagna cominciava a dominare con le tre big. A modesto parere dell’autore, il punto è sempre lo stesso: la scarsa propensione italiana a puntare su calciatori giovani, a dare loro fiducia, a scommetterci con il rischio di vivere qualche periodo di transizione. Siamo quelli del tutto e subito, e questo si riflette nel calcio: Mughini cita giustamente Verratti, dopo quello straordinario anno a Pescara nessun club era disposto a pagarlo oppure, e questo è forse anche peggio, portarlo subito in squadra. Anzi: sia Juventus che Napoli parevano propense a parcheggiarlo in prestito per un altro anno.
Altrove invece i giovani, se valgono, giocano; si penserà poi al fatto che non siano cresciuti abbastanza, o secondo le premesse. Ma questo è un tema che si lega a filo doppio alla qualità dei nostri settori giovanili, ai prospetti che produciamo (pochi), al modo in cui si insegna nei vivai – ovvero: la vittoria conta comunque più della maturazione – e, ancora, alle realtà delle Primavera che sono ormai obsolete e aiutano poco a svilupparsi. Da questo punto di vista la Juventus Under 23 ha rappresentato qualcosa di innovativo, ma nessuno ha ancora seguito quella via; ecco allora la differenza, perché il Psg può permettersi Neymar e Kylian Mbappé insieme (e Cavani, Icardi e tutti gli altri) perché ha uno sceicco che paga, il Bayern ha la squadra che ha perché come sempre ha saputo programmare, tenendo i conti a posto e scommettendo su casa propria. Una differenza netta: il secondo metodo dura nel tempo, e basta guardare l’albo d’oro della Champions League e le finali giocate per rendersene conto. Questo è quello che dovrebbe fare l’Italia: non guardare a vittorie estemporanee o provare a copiare altri, ma semplicemente investire di più sulla propria produzione. Come del resto faceva in passato…