Ogni passaggio d’epoca, ogni mutamento di paradigma, per citare l’ormai invalsa intuizione di Kuhn, ha bisogno dei simboli che certifichino la transizione e, ancor prima, ha bisogno dei suoi pionieri e promotori: solerti quanto involontari pontieri tra un controvertibile ieri e un ancora inimmaginabile domani.
James Ensor (1860–1949) è certamente il pittore che introduce ai dilemmi del Novecento maturo, critico e totalitario, pur avendo una formazione culturale apparentemente ancora tipica dell’Ottocento europeo. È forse un personaggio di retroguardia? Difende respingendo un mondo che non c’è più o piuttosto vede un mondo che ancora non è mai stato? La sua opera più nota è la celeberrima “Entrata di Cristo a Bruxelles”, del 1888: più la si guarda e più motivi di studio affiorano, rendendo, di là dal lato tecnico–estetico, quel quadro la fonte sinora vivida di un’esegesi non del tutto compiuta.
I canali più lineari della rappresentazione ci sono del resto ampiamente noti: il pittore, neanche trentenne, è già misantropicamente chiuso nel suo studio eppure il fervore anche insano dei tempi non certo gli sfugge. Tutt’altro: preconizza le masse, la propaganda e la propaganda di massa. Di quello scenario in divenire ha pressoché totale ripulsa e, tuttavia, anche la massificazione demografica e urbanistica avrà un significato di liberazione nella storia del XX secolo, almeno fino al disastroso avvento delle dittature (le quali del resto amano istituirsi all’apparenza almeno quali “stati sociali nazionali”). Non è un caso che, all’avvento del Male, Ensor fugga ancora, visto che i suoi anni Trenta del Novecento sono quelli delle tele più ireniche e meno militanti.
Tornando al quadro, il povero Cristo, a cavallo evangelicamente non certo di pregiati destrieri sellati, nonostante la corona di luce e il compimento della Scrittura, è soppiantato da almeno altre tre grandi forze: la disattenzione, il potere, la disattenzione di massa per il potere degli abusi. Il dipinto resterà a lungo essenzialmente privato: l’ultima decade del XIX secolo crede ancora nella ferrovia e nell’omelia, negli statuti capital–borghesi e nel convenzionalismo valoriale. Avvia la transizione dalla processione sacra alla festa di piazza e all’una appiccica i cliché dell’altra senza soluzione di continuità. Diciamoci pure la verità: quel mondo è esattamente la Bruxelles che accoglierebbe Cristo con una parata. E nulla c’è a volte di più spaventoso che guardarsi allo specchio.
Tutto Ensor comunque meriterebbe una riscoperta, magari nel poggio in realtà ben fiorito e articolato della comparazione coi Grandi dei suoi anni.
Tanto per cominciare primariamente suo è il tema della maschera come artificio dell’adattamento: arriva prima e, perciò, più libero dalle proprie previe stesse elucubrazioni, di Pirandello, Joyce, persino Freud e Jung. Vanta di non indossarne, peraltro, ma per una sorta di epifanica eterogenesi dei fini finisce per portarne: proprio nell’ingresso di Cristo a Bruxelles, questi porta le sembianze del pittore, che così si “maschera” nel ruolo di una vita; un redentore, un flagellato, un risorgente prima che un risorto.
Non si vuole ovviamente qui innalzare Ensor a canzoniere omnibus dell’ideologia (anche legale) dell’arte figurativa. Nonostante la longevità di vita, molto nel catalogo dell’artista belga sembra taccuino, carniere di spunti da rimettere a fuoco, aritmica alternanza tra canovacci e slanci.
Ensor inaugura una certa infantilizzazione dei volti e dei corpi, una scarnificazione di linee che infittisce il pensiero fino a occultarlo, ma è a suo agio anche su toni classici (come ne “La mangiatrice di ostriche”). Ha il gusto per la paesaggistica balneare alla stregua dei maestri del suo tempo, ma introduce nella raffigurazione dei suoi paesaggi di Ostenda temi caricaturali, mantenendo tuttavia giochi di luce tecnicamente ben sperimentati.
Solipsistico mentore dell’espressionismo, ha, proprio nel pieno degli anni Novanta, insospettabili e durissime rievocazioni di realismo socialista e comunardo. I suoi “Drunkards” del 1893 tormentano la Storia con la sistematica ruvidezza dello sguardo “oltre”, contemporaneamente qui e altrove, contro. Tali e quali potremmo vederli in un borgo incendiato dai moti del ’48, all’uscita di un night nel pieno della Belle Époque, alla fine di un turno in fabbrica in una latteria milanese, inseguiti decenni dopo dalle spie del Reich in una Berlino sempre più simile alla Babilonia del peccato. Non è allora ad essi che Cristo va annunciato, son forse loro che lo annunciano al mondo.