Lo scontro in atto tra il presidente della Regione Sicilia e il governo nazionale sta forse producendo qualche effetto. Oggi una nave è giunta a Lampedusa per accogliere parte dei migranti presenti nell’hotspot dell’isola (con priorità per i positivi al virus), e una seconda arriverà a Pozzallo, entrambe per distanziare i migranti positivi al coronavirus ma anche per decongestionare i luoghi di accoglienza, davvero troppo affollati rispetto alla loro capienza. Altri provvedimenti sono stati predisposti (come un bando per una nuova nave-quarantena) dal governo nazionale nel timore di una perdita di consensi a favore di Salvini (è notizia di ieri sera che il Governo ha impugnato l’ordinanza).
E, tuttavia, non si può non sottolineare come la vicenda abbia dell’assurdo e sia in esatta antitesi con il richiamo alla leale cooperazione fatto anche di recente dal presidente della Repubblica come principio che deve presiedere ai rapporti tra Stato e regioni, specialmente nei momenti di crisi.
Difficile sottacere i limiti dell’ordinanza siciliana, finalizzata – secondo il testo – a far fronte ad un’emergenza sanitaria (effettivamente presente) ma che sfocia in un provvedimento assai problematico, cioè la “chiusura” di hotspot e centri di accoglienza, i cui occupanti dovrebbero essere trasferiti “fuori dal territorio siciliano” ad opera dei prefetti dell’isola.
Essi dovrebbero farsi carico di realizzare trasferimenti in luoghi che l’ordinanza stessa non individua obbedendo a un atto che non proviene dal proprio superiore gerarchico, il ministro dell’Interno, che si è detto contrario all’ordinanza Musumeci facendone prefigurare l’impugnazione al Tar della Sicilia, poi effettivamente avvenuta.
Che l’ordinanza non dica dove vadano trasferiti i migranti è anche ragionevole (in un contesto in cui la ragione giuridica è palesemente carente), visto che un presidente di regione, pur speciale, pur dotato di rango di ministro nella logica del cerimoniale (ma non per altri scopi), non dispone di poteri di imperio al di fuori del proprio territorio.
Sarà pure un discorso legato mani e piedi al rispetto “formale” della legge e del riparto di competenze tra i vari livelli di governo, ma accettare che con lo scopo di sollevare un problema, di scuotere l’inerzia del governo nazionale, di rassicurare la popolazione mostrando i muscoli (tutti fini anche condivisibili, se si vuole) un’istituzione come la presidenza di una regione si muova secondo logiche contrarie alla legalità è veramente paradossale. E viene da chiedersi se non fosse disponibile uno strumento un po’ meno problematico per ottenere i medesimi effetti.
La leale collaborazione funziona se è leale e se chiama in causa quanto meno due parti. Ora, per dirla tutta, il governo nazionale non pare essere stato fin qui capace di creare le condizioni affinché la collaborazione si realizzi. Si realizza talvolta a livello più basso, quando ad esempio i sindaci di buona volontà compiono azioni finalizzate a far fronte alla difficile situazione della gestione dei migranti, a oggi giunti sull’isola in numero assai più alto rispetto all’anno precedente. Invece, tra governo e regioni (e di esempi ce n’erano e ce ne sono tanti su cui riflettere) vige la più pura logica dello scontro, anch’essa attestata su parametri giuridici, quali la competenza dello Stato centrale in tema di immigrazione contro la competenza regionale in materia sanitaria, quasi che il problema non tocchi entrambi i profili e richieda dunque una cooperazione invece che uno scambio di insulti, pur giuridicamente formulati.
Come risultato, la platea degli osservatori, dei cittadini, del mondo politico e della stampa si dividono tra difensori ora di una parte ora dell’altra, mentre le questioni pratiche, quelle che richiederebbero un’azione congiunta, un coordinamento, una messa in comune dei mezzi per far fronte al bisogno, restano sullo sfondo. Le logiche di scontro fanno poco per migliorare la situazione di questi “ultimi”, di questi disperati, situazione che invece richiederebbe una politica seria e non meramente finalizzata al consenso. In questa logica si sono espressi i vertici della chiesa siciliana, tramite la Caritas, richiamando ai doveri morali di solidarietà e di rispetto per i poveri ma anche alla necessità di “fare”, agendo per offrire soluzioni praticabili al problema. Non solo grida e spinte allo scontro ma carità attiva (e anche qualche scelta politica che non sia solo emergenziale o finalizzata a rispondere alle azioni “di disturbo” di chi il peso dell’immigrazione lo vive sulla propria pelle).