Il dossier sulla rete unica di telecomunicazioni del paese ha subìto, negli ultimi giorni, una forte accelerazione perché occorre dare una risposta al Consiglio di amministrazione di Tim, che si terrà domani. In quella sede è previsto che si dia vita alla nuova società FiberCop, nella quale dovrà confluire in un primo tempo l’ultimo miglio della rete, ovvero il collegamento in rame o in fibra dall’armadio alla sede dell’utente e vedrà l’ingresso del fondo americano Kkr e di Fastweb.
Negli incontri riservati fra l’amministratore delegato di Tim, Luigi Gubitosi, e quello di Cassa depositi e prestiti, Fabrizio Palermo, sembra si sia arrivati a un primo accordo per il quale Cdp si impegna ad entrare nella nuova società attraverso una opzione che Cdp eserciterebbe al verificarsi di alcune condizioni, la principale delle quali è il disco verde delle Authority nazionali ed europee, ritenuto irrinunciabile per garantire che la nuova società possa beneficiare dei fondi europei destinati alle infrastrutture digitali, come il Recovery Fund.
In un secondo tempo, in FiberCop dovrebbero confluire la rete in fibra di Open Fiber e la rete primaria di Tim.
Uno dei punti principali dell’accordo, per ora necessariamente a livello di linee generali, è il tipo di governance previsto per la nuova società della rete, che prenderebbe le mosse da FiberCop. Da una parte Tim dovrebbe conservare la maggioranza azionaria (almeno il 50,1%) – questo rappresentava un punto vincolante per l’a.d. Gubitosi -, dall’altra la governance sarebbe condivisa e presidiata attraverso precisi puntelli: l’a,d, sarebbe scelto da Tim, ma con il via libera di Cdp, mentre il presidente, con importanti deleghe esecutive, sarebbe espresso da Cdp, con l’avallo di Tim. Sarebbero previste maggioranze qualificate e rafforzate su decisioni strategiche sulle quali sarebbe assicurato a Cdp fino a un diritto di veto.
Quello che quindi, fino a questo punto, si può dire è che:
1) finalmente Tim e Cdp si sono parlate in termini concreti;
2) sono stati definiti alcuni punti fermi, che risultavano imprescindibili per entrambe le parti;
3) si è abbozzato un percorso condiviso che necessariamente avrà bisogno di tempo per poter essere implementato;
4) il governo e l’attuale maggioranza hanno dato un primo assenso a tale accordo.
La novità, perciò, è che si fa sul serio, c’è un percorso condiviso e concreto, sul quale ci si intende impegnare.
Noi da sempre abbiamo auspicato che questa soluzione della rete unica venisse perseguita e non possiamo non condividere la posizione recentemente espressa dai sindacati confederali di categoria, che hanno ribadito la necessità di “un soggetto forte” nel settore delle telecomunicazioni. Come scrivono Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil, “questo compito lo può assolvere Tim” con Cdp rafforzata nell’azionariato, mantenendo l’attuale perimetro “attraverso il possesso della maggioranza delle azioni”, ma anche “aperta da subito a tutti gli investitori interessati ai quali vanno garantiti poteri speciali”. Altre soluzioni, come ventilate scissioni, non permettono di competere con i colossi di Cina e Usa e “impensieriscono molto sul piano della tenuta occupazionale”.
Oltre alla naturale preoccupazione sindacale per l’occupazione, ci sembra molto pertinente l’indicazione che viene data che occorra, in questo settore, a livello nazionale, un soggetto forte, un’azienda in grado di presidiare e promuovere un settore da sempre strategico, ma nel prossimo futuro, decisivo per la ripresa economica.
Questa soluzione, inoltre, impedirebbe di continuare a sperimentare lo scempio patito negli ultimi anni, in cui la Telecom, ex-incumbent, ha dovuto subire ripetuti attacchi azionari per speculazioni puramente finanziarie: scempio che non si è verificato in nessun altro paese industriale avanzato. Inoltre, la presenza autorevole di Cdp dovrebbe e potrebbe consentire di predisporre strategie industriali a medio e lungo periodo, assolutamente necessarie nel settore delle telecomunicazioni nell’ottica del sistema paese e che un soggetto puramente privato difficilmente può considerare.
Non possiamo però nasconderci i molti scogli che questo abbozzo di soluzione dovrà incontrare.
Certamente saranno passaggi molto complessi e delicati quelli relativi alla valutazione economica delle reti (di Tim e di Open Fiber), la quota di personale Tim che dovrà entrare in questa nuova società, le relazioni fra questa società e gli altri operatori eccetera. Ma questi sono tutti punti che – avendo deciso di perseguire un certo obiettivo – si possono comunque risolvere.
Più complicato risulta, a nostro avviso, vincere le resistenze che già si sono manifestate a vari livelli. Prima di tutto, la resistenza della dirigenza di Open Fiber: il presidente Franco Bassanini in questi giorni ha continuato a rilanciare, via twitter, articoli contro la possibilità della “nazionalizzazione” o del “ritorno al monopolio” (ovvero il controllo di Tim).
Altro punto critico sarà la posizione che prenderà Enel, che detiene l’altro 50% di Open Fiber, sebbene diversi osservatori siano ottimisti sul fatto che l’a,d, Francesco Starace sia pronto a vendere la propria quota, ad un prezzo congruo.
Altra criticità che non dobbiamo nasconderci è l’instabilità politica: l’abbozzo di soluzione che si sta prefigurando richiede comunque dei tempi abbastanza lunghi. Occorre che la politica mantenga fermo il timone, che non sorgano dei “distinguo”, delle richieste di “approfondimento”, insomma tutto l’armamentario che la politica conosce quando intende far arenare un progetto.
Certo, l’urgenza emersa duramente con la pandemia della necessità di dotarsi della banda ultralarga, come dettato dalla Ue e la possibilità di poter accedere al Recovery Fund per la sua realizzazione, dovrebbero essere argomenti forti, tali da mantenere tutti impegnati rispetto al raggiungimento dell’obiettivo. E l’obiettivo è quello di dotare il sistema paese di un’azienda in grado di fornire servizi avanzati di rete di telecomunicazioni, per consentire una diffusa digitalizzazione a tutti i livelli, o come dice la ministra per l’Innovazione, Paola Pisano, “un passaggio essenziale per costruire il futuro delle infrastrutture digitali del nostro Paese”.
Infine, non dimentichiamo che esistono forti interessi interni e internazionali perché l’Italia non torni a giocare un ruolo di primo piano a livello europeo e mondiale nel settore strategico delle telecomunicazioni (ruolo che la Telecom ha avuto fino agli anni Novanta del secolo scorso), ma anzi rimanga soltanto un ricco mercato da saccheggiare. Anche di questo sarà necessario tener conto.
P.S. Un punto di attenzione riguarda sicuramente la presenza del fondo americano Kkr. Alcuni dati per descriverne la peculiarità: più di 200 miliardi di dollari amministrati, quasi 1.500 fra impiegati e consulenti, affiancati da 470 analisti che operano in 20 città di 16 diverse nazioni. La società di private equity viene fondata a New York, dove è quotata in Borsa dal 2010, nel lontano 1976 da Jerome Kohlberg Jr. e i cugini Henry Kravis e George R. Roberts. Dalla sua nascita, Kkr (acronimo per Kohlberg Kravis Roberts & Co.) ha completato transazioni nel settore del private equity per un valore di oltre 400 miliardi di dollari, con investimenti in oltre 160 società dei settori più disparati (energia e infrastrutture soprattutto, ma anche credito e real estate).
Fra gli incarichi apicali della società spicca un nome di caratura internazionale. Presidente del Kkr Global Institute, l’istituto che fornisce analisi di rischio e geopolitiche agli investitori del fondo, è infatti David Petraeus, generale dei Marines, già a capo delle truppe in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan, poi direttore della Cia. Un nome di peso anche politico, assoluto. A tutto questo, aggiungiamo che Kkr mantiene ottimi rapporti con l’amministrazione Trump.
L’ingresso, così significativo nella partita per la rete unica in Italia, forse rappresenta un segnale di quale parte Telecom Italia abbia scelto rispetto alla “guerra fredda” in atto fra Usa e Cina, che ha grossi risvolti anche a livello tecnologico e nelle telecomunicazioni in particolare. O anche, quale sia il livello di attenzione degli Usa rispetto alla società italiana, soprattutto nei suoi settori strategici.