“Problema: avete un armadio enorme da spostare e una porta troppo piccola attraverso cui farlo passare. Cosa fate, buttate giù il muro o smontate l’armadio?”.
La metafora dell’armadio calza perfettamente all’annoso tema delle riforme istituzionali nel nostro paese. Dopo diversi e vani tentativi di spingere a forza l’intero armadio attraverso la porta (la Commissione Bozzi nel 1983, la Bicamerale D’Alema nel 1997, il referendum Berlusconi nel 2006, il referendum Renzi-Boschi nel 2016), ci riproviamo adesso a far passare almeno un piccolo pezzo, quello della riduzione del numero dei parlamentari.
E immancabilmente, come accade appunto da oltre trent’anni, si riaccende il dibattito: c’è chi sostiene che non si può, bisogna che l’armadio resti intero; chi invece avrebbe preferito scegliere un altro pezzo da far passare per primo; chi ritiene, senza se e senza ma, che è meglio non toccare niente. Tutti quelli che partecipano in maniera appassionata a questo dibattito auspicano un voto negativo al Referendum, con l’obiettivo esplicito di costringere il legislatore a rimettere immediatamente il pezzo al suo posto.
Dai sondaggi che circolano in realtà non sembra esserci partita, perché la maggioranza degli italiani (è di ieri quello Demos-Atlante Politico di Repubblica che dà il Sì all’82%) non sembrano avere dubbi sulla necessità di dare una bella sforbiciata al numero degli onorevoli e dei senatori. Insomma, nonostante tutti gli allarmi e gli appelli a fermarsi, gli elettori non sembrano troppo preoccupati dei rischi paventati per la nostra democrazia, evocati con toni drammatici da molti costituzionalisti, politologi, commentatori sui giornali dell’establishment.
Più che all’antipolitica, si deve alla resistenza ad ogni cambiamento lo scollamento tra il paese reale e le sue élite. L’idea che da qualche parte bisogna pur cominciare a fare qualcosa e che tagliare il numero degli eletti rappresenti in effetti una spinta al cambiamento per obbligare i partiti a fare anche le altre riforme che servono, appare addirittura una considerazione ragionevole.
Lo stesso Renzi alla fine ha dovuto ammettere che così stanno le cose. I lunghi colloqui estivi con Zingaretti hanno rasserenato molto i rapporti tra il segretario del Pd e l’ex premier. L’esigenza principale di Italia Viva è abbassare almeno di un punto l’asticella della percentuale del 5% come sbarramento elettorale previsto dall’accordo dell’agosto scorso, limite oggettivamente irraggiungibile per Iv allo stato attuale delle cose. L’intenzione di Renzi sarebbe anche quella di aggiungere qualche altra condizione – come l’introduzione della “sfiducia costruttiva” – in modo tale da potersi intestare un risultato in grado di superare le resistenze interne.
Così Zingaretti è riuscito in un’impresa difficile e da molti ritenuta illusoria: portare avanti contemporaneamente l’alleanza con Conte e i 5 Stelle fino a renderla stabile, e avviare il disgelo con l’ex segretario a pochi mesi dalla scissione. Sono queste le condizioni indispensabili per portare a casa una buona legge elettorale e il necessario rimpasto di governo dopo il voto di settembre. La linea della responsabilità alla lunga paga. il segretario dem è stato costretto in questi mesi ad ingoiare molte offese e qualche critica di troppo, ma alla fine a suo favore contano i fatti. Con buona pace di tutti coloro che prevedono (auspicano) la fine del governo Conte praticamente ogni mattina e le sortite estemporanee di Bettini, la linea unitaria di Zingaretti avanza anche se ha bisogno di tempo per affermarsi.
Ad aiutare questa linea c’è anche un’azione del governo divenuta più concreta, segno che la collaborazione tra le forze di maggioranza ha trovato una modalità di azione diversa dalle continue litigate pubbliche di qualche mese fa. Forse anche l’incombente minaccia di un rimpasto ha spinto molti ministri a fare di più e a parlare di meno. Lo stesso Conte, forte del consenso conquistato nei mesi di massima esposizione del lockdown, appare molto più defilato.
In questo modo anche i dossier più difficili trovano oggi soluzioni più rapide. L’accordo raggiunto con Telecom sulla “rete unica” segue la conclusione tutto sommato positiva dello scottante dossier Autostrade. In questo contesto emerge il ruolo di Gualtieri, altro uomo chiave del Pd, che, con il suo ottimismo rassicurante, governa con equilibrio le spinte più stataliste e il bisogno di tutelare meglio il ruolo pubblico dello Stato, visti gli evidenti errori commessi in questi ultimi anni.
Senza contare che la gestione della crisi (nuovi vaccini, tamponi e tracciamento, gestione dei focolai) sta confermando che abbiamo ancora la situazione sotto controllo, e siamo lontani dai dati preoccupanti di Francia e Germania. Certo, molti seri ostacoli sono sul percorso del governo Conte. Il voto del 20 e 21 settembre, innanzitutto. Poi la spinosa questione della riapertura delle scuole. Le incertezze della ripresa economica dell’autunno. La trattativa con l’Europa, i progetti per attivare i fondi del Recovery Fund, che fare del Mes. Ma chi oggi – sinceramente – vorrebbe cambiare governo? Chi veramente può pensare ad una maggioranza diversa, senza il Pd come perno? Citando una nota pubblicità, verrebbe da dire ai tanti critici: what else?