Una evidenza di questi giorni che precedono l’avvio dell’anno scolastico è che nessuno di noi è a suo agio nella confusione. Poiché la confusione è segno di incertezza e, alla fine della fiera, quel che soggiace al “discorso sulla scuola” è l’esigenza di una certezza inafferrabile.
Ma facciamo un passo indietro: è possibile essere certi prescindendo dalla verità delle cose? No. La prima verità riguarda il fatto del Covid-19. Qualcosa che, da mesi, pur invisibile, si è imposto come fattore di realtà indomito e sfuggente persino alle analisi scientifiche – o meglio, alle elaborazioni di comunicazione scientifica – più disparate. Il Covid è, come ha messo a fuoco Julián Carrón nel libro-intervista ad A. Savorana Il risveglio dell’umano. Riflessioni da un tempo vertiginoso (Bur 2020), la straordinaria circostanza attraverso cui la realtà si è imposta come tale: “Che cosa ha fatto scoppiare la ‘bolla’ di una vita sotto controllo? L’irrompere imprevisto e imprevedibile della realtà, con la faccia del Coronavirus” e cita il romanziere spagnolo José Ángel González Sainz: “Nella vita di un paese o di una persona, ci sono momenti in cui la realtà, la realtà più concreta e oggettiva, la più cruda e meno condita da ricette e dai cuochi abituati a cucinare mentalità e storie, irrompe improvvisamente con una violenza spaventosa a cui non eravamo abituati. La realtà non diventa reale in quel momento, era sempre stata reale, era lì fin dall’inizio, ma la sua maggiore leggerezza ci ha permesso di non guardarla continuamente faccia a faccia, era sufficiente farlo con la coda dell’occhio e concentrarsi su quante storie e illusioni ci venivano servite, più o meno piacevoli o ingannevoli”. La realtà – continua Carrón – si è ribellata al suo misconoscimento, ha di colpo rivendicato il suo ruolo ‘primario’”.
La vicenda della ripartenza della scuola sta mettendo a nudo nuovamente – in modo drammaticamente inedito – la “lotta” tra la nostra esigenza di certezza, da un lato; l’irriducibilità del dato, il virus ancora presente, dall’altro. Mettere a fuoco questo può forse liberare dalla logica della contrapposizione e suggerire una prospettiva meno confusa e più realistica dei fattori in gioco. E rivela che quella pretesa di “sicurezza assoluta” è, appunto, una pretesa che nessun decisore politico o scienziato può garantire. Anzi, è una pretesa che ha rallentato in modo irragionevolmente gravoso le decisioni e indicazioni ministeriali, tardive e talvolta contraddittorie.
Ma da qualcosa di certo bisogna ripartire. Di cosa l’esperienza del Covid ci ha dato l’opportunità di diventare più certi? Del valore della persona come vero fattore, motore decisivo di una esperienza e di una novità. E – rimanendo nel merito della sicurezza – paradossalmente in grado di innalzare o abbassare il livello di rischio, l’esposizione al pericolo.
La persona e la sua dipendenza ultima, il suo essere irriducibilmente desiderio e bisogno di relazione, di senso delle giornate, di servizio al bene comune: questo ha infiammato il lockdown di creatività, iniziativa, solidarietà e – entrando nel merito della professione insegnante – riscoperta dell’essenziale della professione. Questo è stato forse il patrimonio più grande e prezioso che ha segnato la nostra storia e che non dovremmo perdere. Come? Educando, ossia introducendo alla realtà in quanto tale, come diceva Giussani citando Niebuhr, “introduzione alla realtà totale”. Che è irriducibilmente “dato” e dunque oggetto di scoperta prima che di manipolazione e ansia di controllo. E la scoperta implica il rischio della mia libertà e del desiderio di ciascuno di noi.
La questione scuola, allora, è innanzi tutto una questione educativa. E la lealtà con la nostra confusione di questi giorni la rende la questione delle questioni!
Vale la pena, dunque, correre il rischio correlato all’apertura delle scuole? Sul rischio medico-sanitario non sono in grado di esprimermi, anche se mi sembra evidente che la pretesa di assenza di rischio è illusoria.
Da madre e insegnante rispondo che la possibilità di educare non è un fattore secondario. Anche per la stessa gestione del rischio sanitario. Perché al centro c’è la persona, ossia il soggetto che in primis è chiamato continuamente a trattare la realtà. La possibilità della didattica in presenza – vera dimensione della relazione educativa –, della dimensione amicale e sociale per un giovane in crescita, del sostegno alle famiglie nella responsabilità educativa, significa la possibilità di promuovere l’autocoscienza dei nostri figli (che questa estate è stata smarrita da molti, divenendo appunto fattore di contagio) come responsabilità personale autentica e consapevole. A cosa? Alle regole? No, alla realtà che – come diceva Sainz – non è diventata reale adesso, lo è stata sempre.
Responsabilità, cioè “risposta mia” ad altro-da-me, sia esso il Covid, il mio compagno, la mia maestra, mio nonno, il collega. Che mi sono, in qualche misura, (affi)dati. Stare attenti all’altro con questa consapevolezza può essere la possibilità di uno sguardo più autentico verso chi abbiamo davanti e cui siamo legati in un rapporto reciproco di appartenenza e dipendenza che non possiamo estirpare (e che il lockdown ha rivelato essenziale) e nessuna regola anti-rischio può surrogare.