“Alla fine hai perso/ il rumore che fa la vita”: così un figlio guarda un padre andarsene via per sempre. Così Marco Bellini affronta nel suo nuovo libro La complicità del plurale (Lietocolle 2020) uno dei temi centrali di molta poesia italiana, da Sbarbaro a Cattafi, da Saba e Quasimodo a Raboni. Il volume è diviso in due parti: la prima, La carne in prestito, è quasi una lunga introduzione in cui il poeta rivela il desiderio che attraversa il suo operare. “Una alla volta le vorrei richiamare/ da dove non so. Prenderle dal vento/ o dall’ultimo raggio chino dentro una serratura./ Solo un’impressione/ di quelle vite passate. Richiamarle”: il compito che egli intende per la sua poesia è quello che essa possa rimettere sotto la luce, anche solo per un attimo, le vite che se ne sono andate, “Certo, mettere un appunto/ nella memoria di chi viene dopo/ così che un’orma piccola/ trovi casa/ dentro un’orma grande”.
Ma questa intenzione generale si declina poi nella seconda parte del libro, divisa a sua volta in tre sezioni, nel dialogo struggente e delicato che il poeta intesse con il padre. In Trovarsi nel rumore della ghiaia ci sono i giorni della malattia, della progressiva e inesorabile avanzata di un male che alla fine renderà quella figura come un “arricciarsi nero e subito volatile/ della carta vecchia”. Fino al distacco, al precipitare definitivo che avviene in una domenica di calmo vento.
Nelle pagine successive, nella sezione dal titolo Dal giardino scomposto Bellini dà pienamente corpo all’intenzione che aveva annunciato all’inizio del libro: ricostruisce i giorni della convivenza con il padre, lo vede dentro il suo giardino, riassapora i suoi gesti ripetuti, ne ridisegna la silenziosa figura. Prende consapevolezza di cosa sia la mancanza e chiede ad altri di dire al padre ciò che ora continua a vivere senza di lui: “se qualcuno sa spingere le braccia di là/ per favore lo dica// a ciò che è lui, se lui è// che i lucherini/ sono ancora l’inverno da noi/.”
Confessando così il desiderio di una preghiera che dice di non sapere dire, in fondo rivela l’identità della sua scrittura: la poesia si consuma, dopo l’esercizio della memoria, nel rinnovato racconto, nell’illuminazione di ciò che resta e nel desiderio che queste piccole cose che fanno la vita possano essere nuovamente comunicate a chi la vita l’ha lasciata.
Nell’ultima sezione, dal titolo La misura di un gesto lasciato, il poeta fa i suoi conti con la perdita: il gesto è qualcosa che porta dentro di sé un dono. Occorre misurare questo dono, ora. Occorre cioè pensare, dare un peso, appunto dare una misura a questo dono. E ciò avviene in un atto che potrebbe apparire invece esattamente contrario a questo intento: “Adesso lascia/ in questo andare e venire senza centro/ che siamo e stiamo esattamente/ è l’inconsistenza una forma nuova…Adesso lascia./ Voce del verbo andare/ è il modo.”
Il libro si chiude con un’ultima poesia in cui i figli abbattono il pino grande del giardino. Rumori, fatica, sudore. La madre che chiede ai figli di far dire una messa. Il poeta che vede quel tronco e i suoi rami come una croce, come un’imitazione del Cristo. E pensa che anche quelli possano essere la messa che lo accoglie. La poesia a intestardirsi nel suo destino di aggrapparsi alle cose, di trovare lì, se c’è, un senso. La poesia a conservarsi nella sua povertà e nella sua più grande ricchezza, una specie di umiltà definitiva. Forse il dono che un padre ha lasciato. Un dono ancora più grande della poesia. Un’umiltà ancora più grande che arriva a riconoscere “il fiume/ la fatica della sorgente ancora/ come una resurrezione il fiume/ che affiora tutti i giorni distante da te/ che insisti nella morte.”