E’ il settembre del 1967 e una semisconosciuta bella ragazza del Sud degli States ha l’ardire di spodestare dal numero Uno delle classifiche l’ennesima canzone dei Beatles, All you need is love, inno della Summer of love, con una ballata tipicamente folk, lontana anni luce da quanto andava di moda in quegli anni psichedelici, e che invece che di amore universale, parla di morte. Si intitola Ode to Billie Joe, parla di un giovane che si è suicidato gettandosi dal Tallahatchie Bridge nel Mississippi nel fiume dopo che il giorno prima era stato visto sullo stesso posto gettare qualcosa insieme a una ragazza. Morte e suicidio entrano in tutte le case americane, perché è un tema che ci tocca tutti. Oltre a portare la morte in quella famiglia di provincia protagonista della canzone, l’avevo portata in casa di tutti gli americani. Perché la morte non ti guarda in faccia, entra e ti sconvolge.
Ode to Billie Joe sembra schizzare fuori da un racconto di Flannery O’Connor, la narratrice del Sud degli States per eccellenza: “Ogni volta che mi viene chiesto perché gli scrittori del sud hanno un debole per scrivere di mostri, dico che è perché siamo ancora in grado di riconoscerne uno”. Se uno non sapesse in anticipo che la scrittrice era profondamente cattolica, non lo capirebbe mai leggendo le sue storie, così orride, disgustose, piene di fottuti bigotti, di violenza, di peccato, di morte. Che fosse religiosa lo si capisce se si sa leggere tra le sue righe che ogni uomo ha la possibilità di redimersi, anche dalle cose più orribili: “Penso che sia certo dire che mentre il Sud è a malapena centrato su Cristo, è sicuramente infestato da Cristo”. E ancora: “Chi non conosce tutte le cose non può essere ateo. Solo Dio è ateo. Il diavolo è il più grande credente, e ha le sue ragioni”.
Secondo molte analisi, Billie Joe e la sua ragazza, che è la figlia di quella famiglia protagonista del brano, che parla del suicidio in modo distratto, come se fosse morta una vacca, avevano gettato nel fiume il bambino appena partorito: ““Da dove vieni è una cosa andata, dove pensavi di andare non c’è mai stato, e dove sei non va bene a meno che tu non riesca a scappare da esso. Dov’è un posto per te? Nessun posto … Niente al di fuori di te può darti un posto … In te stesso adesso è tutto il posto che hai” dice ancora la O’Connor.
Dopo il fenomenale successo di Ode to Billie Joe, Bobbie Gentry entra quasi subito di nuovo in studio. Il disco, intitolato The Delta Sweete (“sweete” nel dialetto del Sud degli States, sta per “bellezza”, “ragazzina”, “dolcezza”, ma ricorda nella pronuncia la parola “suite”; il disco infatti è registrato come un’opera unica, senza interruzioni fra un brano e l’altro) viene pubblicato il 5 febbraio 1968. La svolta è evidente. Bobbie Gentry non è più la cantante folk del disco precedente, uno spirito delle paludi sembra essersi impossessato di lei, quasi come una versione di Robert Johnson. La sua voce spacca, urla, si dimena, si storce e ulula alla luna. In Reunion, un altro originale di Gentry che dipinge l’immagine di una famiglia che litiga intorno al tavolo da pranzo, Gentry presenta una struttura proto-rap con l’accompagnamento ritmico della corda per saltare dell’infanzia di Gentry. La performance incute paura, è un sovrapporsi di voci angeliche e di baci urlate, di angeli e demoni. Canta come se fosse posseduta da uno spirito cattivo.
Come Dusty in Memphis di Dusty Springfield, dello stesso periodo, benché quello fosse più delicato, è il più bel disco di country-soul di una cantante bianca di tutti i tempi e riflette magnificamente i suoni, i sentimenti, le musiche del Sud degli States. Gentry scrive otto delle 12 tracce dell’album, che descrivono in dettaglio la sua infanzia nel Mississippi e includono scene di vita domestica e in chiesa (Reunion e Sermon), oltre a ricordi di blues e successi country che ascoltava da ragazza (Big Boss Man e Tobacco Road). La canzone Okolona River Bottom Band è accentata da un sofisticato grafico di fiati e archi dall’ampio respiro.
L’album si apre con questo pezzo, uno swamp groove che porta tra le paludi del Mississippi. Segue la cover di Big Boss Man. Gentry infonde nella canzone una piccola diversione, con una piccola risata, dicendo che troverà il suo capo e “mi tratterà bene”. Un segno di rifiuto della predominanza maschile, coraggioso per una ragazza del Sud. Parchman Farm è una cover di una canzone di Mose Allison, che era essa stessa una versione modificata di una canzone di Bukka White. Il lamento degli schiavi incatenati si fonde perfettamente con il paesaggio del Delta di Gentry. La traccia cinque è la sensuale Mornin’ Glory, un originale di Gentry. Il primo lato si chiude con Sermon, una versione idiosincratica del tradizionale brano gospel Run On, facendolo sembrare minaccioso e perversamente gioioso allo stesso tempo.
La seconda parte inizia con una cover dell’agrodolce Tobacco Road, eseguita in stile cinematografico con il suono e gli archi di una band Mariachi. La traccia otto, Penduli Pendulum, è un momento psichedelico sconcertante mentre Jesse ‘Lisabeth è una tenera favola popolare che emana una sensazione di presentimento. Refractions è un inquietante brano pop da camera su un uccello di cristallo sospeso nell’aria, incapace di atterrare perché le sue gambe sono rotte. La traccia undici è una cover di Louisiana Man, l’unica traccia che sembra fuori posto nel disco, a causa della sua distanza geografica dal tema narrato.
L’album si chiude con Courtyard, la storia di una donna soffocata dal lusso e imprigionata dalle vuote promesse del suo amante.
I demo inclusi in q questa edizione sono straordinari. Tra tutti The Seventh son di Willie Dixon, altra canzone che sa di zolfo e demoni che lei rende in unaprestazione vocale fenomenale: non diresti mai che quella che canta è una cantante bianca. Tutto il misticismo, fatto di paure e minacce, dell’educazione religiosa e sudista di Gentry fuoriesce da questi solchi.
Come si vede un disco sperimentale, angosciante e tradizionalista allo stesso tempo. Puro Southern Gothic. Un capolavoro. Purtroppo non avrà il successo del predente disco. Da allora, Bobbie Gentry ha inciso pochi dischi tra cuiuno in duo con la stella del country pop Glen Campbell esibendosi ancor più raramente. Il suo ultimo disco, Patchwork, è del 1971. L’ultima apparizione pubblica è del 30 aprile 1982 all’Academy of country awards. Da allora, si è sposata diverse volte, tutti matrimoni finiti nel giro di pochi mesi, un anno al massimo. Non ha più concesso interviste né è apparsa in pubblico. Non è neanche sicuro se viva a Memphis o a Los Angeles. Quel che è certo è che quello dove vive è un quartiere precluso ai non residenti. Il Tallahatchie Bridge è stato demolito negli anni 70. Il fantasma di Billy Joe aveva bisogno di un posto dove trasferirsi. Probabilmente a casa di lei, che lo aveva resuscitato con una canzone.
Lo scorso anno è uscito uno straordinario tributo a The Delta Sweete a cura dei Mercury Rev in cui cantano alcune tra le migliori cantanti al mondo.
Il 31 luglio di quest’anno è invece uscita una bella ristampa deluse con il disco originale con un nuovo mix stereo dell’album, proveniente dai nastri sopravvissuti a quattro e otto tracce, e un secondo cd con l’edizione in mono originale. Sono presenti 10 tracce bonus, con la demo inedita The Way I Do e una versione strumentale di Okolona River Bottom Band.
Bobbie Gentry non ha bisogno d’altro. Come diceva Flannery O’Connor, “Chiunque sia sopravvissuto alla sua infanzia ha abbastanza informazioni sulla vita per durare il resto dei suoi giorni”. Non tutti riescono a sopravvivere alla propria infanzia.