Un ciclista lo sa bene: la sua bicicletta è una penna che scrive sull’asfalto. Quando la strada sale, non ti potrai più nascondere, a maggior ragione se tutti ti hanno detto “Sei un immenso scalatore!”: un quasi erede del Pantani-nazionale, pur sapendo d’essere sul ciglio di bestemmiare, visto che di Marco la natura non ripresenterà una copia in miniatura.
Fabio Aru – ciclista sardo, classe 1990, uno degli uomini ghiotti del ciclismo italiano – si è ritirato dal Tour de France. Beppe Saronni, dirigente della UAE Emirates (la squadra di Aru), non ha perso tempo a soppesare le parole: «Fabio, per l’ennesima volta, ci ha un po’ deluso». Affina la spada: «Quando fisicamente l’atleta fa fatica e non riesce a fare quello che voleva, chi è più fragile crolla completamente. Nella difficoltà non ha carattere, non si dà coraggio, crolla».
Saronni, piaccia o non piaccia, conosce a menadito l’animo di chi inforca la bicicletta per inseguire un sogno di vittoria: è stato il suo pane in una delle stagioni più mirabolanti del ciclismo italiano, la sua rivalità con Moser ha spezzato a metà il cuore della Penisola, le sue rasoiate sono entrate di diritto nell’almanacco della bellezza. Piaccia o meno, i risultati dicono ch’è stato un gran vincente, uno di quelli che, sceso dalla bici, non ha spento la passione.
Aru che mette piede a terra, per l’ennesima volta, non è certo lo spettacolo che i tifosi del ciclismo sognavano: “Dopo Nibali, a chi aggrapparci per inseguire il rosa e il giallo delle grandi corse a tappe?”. La scommessa era Aru: una Vuelta e due bei podi al Giro d’Italia, qualche giorno in maglia gialla e un quinto posto a Parigi erano il biglietto da visita d’un futuro rassicurante.
Non son mai stato un tifoso del ciclista sardo: l’idolo, ciclisticamente parlando, è colui che riesce a farti battere il cuore inaspettatamente, a fare cose che non ti immaginavi, a rinascere di continuo sopra le macerie. Fabio l’ho sempre considerato un buon ciclista, un ragazzo educato, un onestissimo faticatore: non ho mai pensato che rubasse lo stipendio sontuoso che gli hanno assicurato. I contratti, d’altra parte, hanno due firme per essere validi. Se gliel’hanno proposto (andrebbero poi conosciute tutte le postille, i cavilli, le bilanciature per poter ragionare con cognizione di causa), è perché, nell’attimo della firma, lo meritava. Perché gli sponsor, proiettando nel futuro le medesime prestazioni, sospettavano di guadagnarci in immagine.
Da qui a reputarlo fuoriclasse, però, c’è differenza: lo sport mi ha insegnato che vincere è un affare elementare, il vero capolavoro è di confermarsi. Partire alla mattina con tutti i favori del pronostico, con tutti gli occhi puntati addosso, con la squadra intera al tuo servizio, e riuscire ad arrivare un millimetro prima dei tuoi avversari. Ha vinto, Fabio: una Vuelta rocambolesca, la maglia tricolore. E poi non ha più vinto. Le aspettative in salita, l’ansia da prestazione, hanno svelato il vero carattere dell’atleta sardo: un onesto corridore, magari sopra la media, ma non un fuoriclasse. Condannarlo: perché? Scaricarlo: perché? Cosa pensare?
La fatica non è mai sprecata: non è lei che ti spezza, è il modo in cui tu la porti a fare la differenza. Finché rimane affare del corpo, la fatica è forza-motrice e catarsi: quando entra nel cuore è annuncio di epigrafe. Pare ovvio che l’unico avversario di Fabio sia quell’Aru di cui ha sentito parlare spesso: il condannato alla vittoria, lo stipendiato obbligato, l’atteso dalle folle assiepate. Quell’exploit di getto è stata la sua vera condanna: ostinarsi a rincorrere quegli anni è scavarsi sportivamente la fossa.
Riorganizzare le pretese, ammettersi di non essere mai stato per davvero un fuoriclasse ma un signor-ciclista non è affatto ammissione di sconfitta: è ringraziare lo sport per avergli permesso di lavorare su se stesso, sull’idea che aveva di sé. E scoprire che, tolto l’inutile delle aspettative, rimane l’essenziale della realtà: fare i passi in base alla propria gamba.
E’ il ciclismo, è la vita: ovunque si vada si sarà sempre in salita, controvento. Sempre sul punto di cedere o di resistere. A stare in piedi non sarà mai il più forte, ma il più realista.