“Madre, siamo noi due qui a guardarci. Tu mi hai messo al mondo, io sono uscito dal tuo ventre, m’hai dato il primo latte, tuttavia non ti conosco, come tu non conosci me. In questa stanza d’ospedale, siamo due stranieri che non parlano la stessa lingua… e che diffidano l’uno dell’altro… è per cancellare l’idea falsa che ho potuto farmi di te, per penetrare nella verità del tuo essere, per amarti che riunisco briciole di ricordi, che rifletto”.
Mi ha sempre colpito questo passaggio della Lettera a mia madre di Georges Simenon. Soprattutto perché mette in luce una dura, ma sacrosanta verità, che nel tempo della melassa emotiva, pare quasi una bestemmia: la propria madre incarna il più grande dei misteri che un maschio possa incontrare sulla propria strada. Il mistero dell’inconoscibilità radicale del femminile. E, come conseguenza, della totale estraneità del maschio all’essenza della maternità e dello stesso atto generativo, il parto. Certo oggi il parto è cosa da social, il maschio è ammesso allo spettacolo come spettatore, al più tiene la mano della partoriente e sussurra parole inutili (se non sviene) e magari gira pure un filmino da mostrare agli amici. Figuriamoci se dovessimo dire che quel poveretto assiste a una manifestazione furbesca della morte, alla prima e radicale esperienza della mancanza. Alla radicale lacerazione dell’esistenza in sé. Ma sì, diciamolo, nascere è la prima esperienza del morire. E vi sarebbe da aggiungere che morire maschi e morire femmine, non è la stessa cosa…
La letteratura (maschile) s’è occupata a lungo di tale misterioso gioco perverso. Non v’è autore che non abbia, almeno una volta, lasciato scritto qualcosa sul mistero dell’essere figlio, che non abbia intrecciato un qualche dialogo intimo con l’ombra della madre e il peso della sua maternità. Mistero. La parola che meglio descrive tale relazione drammatica, è forse proprio questa, che dice di un insondabile legame che è innanzitutto frutto di una lacerazione, di uno strappo, di una ferita sanguinante. “Arina Vlas’evna gli si avvicinò e, posando la sua testa bianca vicino alla bianca testa di lui disse: ‘Cosa possiamo farci, Vasja! Un figlio è una fetta di carne tagliata via’” – scrive Turgenev in Padri e figli.
La nascita segna la prima delle tante mancanze che caratterizzano la vita interrotta di madre e figlio. Fino all’ultima, definitiva, che incarna davvero il passaggio e l’esperienza della mancanza: la morte in persona.
In effetti, nascita dalla madre e morte della madre sono punti simmetrici di un segmento di storia sostanzialmente tragica che segna l’essere uomo in questo mondo. Tragico destino. Quel figlio che nasce dalla carne della madre, sarà in qualche modo anche colui “che mette la madre alla porta della morte, come è la madre che mette il figlio alla porta della vita” (Curzio Malaparte, Mamma marcia).
Per questo i figli tornano alla madre, ad un certo punto. Per aprirle la porta della morte. Senza questa restituzione del gesto, dove l’urlo espulsivo si fa dialogo d’accompagnamento, le madri non muoiono, crepano. Si frantumano. Senza quella restituzione di gesto, madre e figlio sarebbero degli incompiuti. “Ero tornato per mettere mia madre alla morte, era il mio dovere di figlio, e pensavo che un figliuolo ha il dovere di mettere la propria madre alla morte, che è come un ammazzare la madre, qualcosa di contrario e di simile, alla madre che dà la vita al figlio, che lo fa nascere, che lo dà alla luce. Così egualmente io davo mia madre alla notte, al buio”. (Malaparte, Mamma marcia).
Pare che il figlio possa conoscere la madre soltanto al suo capezzale. Perché finalmente parla con se stesso di quella figura misteriosa che, strappando dal proprio corpo un brandello di carne, lo ha messo al mondo, gli ha affidato una storia, separandosene radicalmente. E ugualmente, non momento del morire anch’essa diventa parola, narrazione. Finalmente il mistero, morendo, si racconta.
“Ho pensato alla mamma tutta la notte ed ho scoperto perché mi sono sentito sempre solo nella mia vita. Mi è mancata lei. Lei viva tutta la mia vita sarebbe stata diversa…”. La confessione di Ferruccio agonizzante al fratello Vasco Pratolini, che Pratolini stesso racconta in Cronaca familiare, aggiunge una prospettiva simmetrica: quella di chi la madre non l’ha mai conosciuta o l’ha persa in tenera età. Un’esperienza comune nel Novecento, quando la generazione di una vita coincideva spesso con la morte della madre. Ed era fuori discussione che la madre optasse per la vita del figlio a discapito della propria. Morte per la vita. I progressi della medicina hanno in gran parte tolto di mezzo questa esperienza. E certo per fortuna.
Ma così è cambiata la natura del nostro essere. Abbiamo cominciato a misurare il peso specifico della morte, creando intorno al mistero della nascita una sorta di teorema economico (e poi giuridico) fino al rovesciamento del paradigma con ragioni sociologiche. Abbiamo così creduto, che grazie al progresso potesse essere eliminato il sostanziale dolore connesso con le ragioni profonde della maternità. Ma il dolore non è una somma di dolori cui poter sottrarre il più possibile i frammenti della sommatoria per avvicinarci, nel conto totale, ad una sorta di bilancio il meno negativo possibile. Il dolore è uno e unico, indivisibile. Vi è una sorta di omogeneità del dolore che pervade l’essere in ogni sua trasformazione. Il totale è sempre a suo favore. Semmai è cambiata la nostra qualità di fronte ad esso. Esso è divenuto dramma, disperazione, annichilimento, nonsenso. Si è uccisa persino la poesia del dolore. E senza una poetica il dolore è davvero un nonsenso, e peggio ancora, è il segno di un fallimento.
La madre inesistente diveniva così un sogno, un fantasma, la mancanza radicale. Eppure tale assenza acquistava il significato profondo di una presenza costante, per tutta la vita, che spesso prendeva voce nel momento estremo della morte. Chissà perché quando si muore, si chiama sempre la propria madre? E’ a lei che ci si vorrebbe ricongiungere.
Conoscere la propria madre è sempre stato il desiderio di un uomo. Ma soprattutto è quasi una necessità sapere perché nostra madre si è unita a nostro padre, divenendo cosi totalmente nostra. Il dialogo figlio-padre inizia sempre con una domanda sulla madre. Perché? Come? Dove? Quando? Il dialogo con nostro padre riguarda, insomma, sempre il mistero di nostra madre, anche quando apparentemente si parla d’altro. La domanda è rivolta a chi – presumibilmente – l’ha conosciuta meglio di noi. Illusione. Anche nostro padre non ne sa granché.
Il primo paragrafo del capitolo ottavo dell’Adolescente di Dostoevskij è dedicato proprio a questo dialogo. Può un uomo cogliere la natura di una donna? Illusione. Il racconto di nostro padre è d’altronde racconto di maschio. Non ci porta da nessuna parte. Anzi genera un ulteriore senso di mancanza.
“Più di tutto mi tormentava – narra Versilov, padre biologico, ma non giuridico del protagonista, ad Arkadij – il ricordo della sua eterna sottomissione davanti a me e del fatto che si era sempre considerata incomparabilmente inferiore a me sotto tutti i rapporti, anche – figurati – in quelli fisici. Lei si vergognava ed arrossiva anche quando talvolta io guardavo le sue mani e le sue dita che non sono affatto aristocratiche. E non solo delle dita, si vergognava di tutto nella propria persona, nonostante che io amassi la sua bellezza. Era sempre stata con me pudica fino alla stranezza, ma il guaio è che in questo pudore saltava sempre fuori una specie di spavento. In una parola, di fronte a me lei si riteneva qualcosa di meschino e addirittura di indecente, (…). Oh, com’era infelice, quando dapprincipio, allorché era ancora così bella, io esigevo da lei che si abbigliasse! Era l’amor proprio, e anche un altro sentimento che si offendeva: ella capiva che non avrebbe mai potuto essere una signora e che con un abito a lei estraneo sarebbe stata solo ridicola. Come donna non voleva essere ridicola nel suo abito e aveva compreso che ogni donna deve avere il proprio abito, cosa che migliaia e centinaia di migliaia di donne non capiranno mai pur di vestirsi alla moda. Temeva il mio sguardo ironico, ecco che cos’era. Ma specialmente triste mi era ricordare i suoi sguardi profondamente meravigliati, che io sorprendevo spesso su di me durante tutta la nostra convivenza: in essi si palesava una perfetta comprensione del proprio destino e dell’avvenire che l’aspettava”.
Inconoscenza, semmai intuizione, prefigurazione, retrogusto, odore: di questo si deve accontentare l’uomo che vive con una donna, soprattutto dal momento in cui essa diviene madre. Da quel momento la donna-madre diviene un Mistero.
La letteratura ci offre un altro esempio di “interrogatorio” del figlio al padre: è ancora Vasco Pratolini a parlarcene in Cronaca familiare: si tratta di un dialogo scarno, trascritto in una memoria giusto per trattenere qualche ricordo. E’ Pratolini stesso a interrogare il padre operaio sulla madre morta ormai da tanto tempo: “IO: Ti voleva molto bene? LUI: Sì, certamente. Ma era una strana donna. Io non l’ho capita mai bene. IO: C’è qualcosa che non mi vuoi dire? LUI: Nulla, assolutamente. Era strana… (…) Ho capito che il babbo non aveva più niente da dirmi, che per lui il ricordo della mamma è qualcosa di distante e di generico, immotivato. Mi parlava intimidito e mi è parso che mi compatisse come d’una mania”.
Come spiegare questa reticenza? Questa apparente dimenticanza? Quasi una rimozione. E che dire di questa stranezza di cui l’uomo si accorge? La donna non appartiene affatto alle categorie del maschio. E’ l’amministratrice della vita e della morte, è il principio di realtà. Questo ci è difficile comprendere. Qui sta forse la stranezza per il maschio.
Uomo dalla donna, uomo con la donna. Beh, non v’è dubbio che siamo di fronte ad una meravigliosa follia. Forse, quel senso di stranezza che sia in Dostoevskij sia in Pratolini accompagna la vita di un uomo, sta nel fatto che “un uomo non nasce da una donna, da una donna sola, sua madre, ma da tutte le donne insieme, da tutto il mondo femminile, da tutto un universo animale” – scrive ancora Malaparte. E soprattutto che nel momento in cui una donna diviene madre, diviene “un fatto anonimo”. E chi le sta accanto inizia a non riconoscerla più.
Forse ciò accade perché nel momento in cui una donna diviene madre, inizia il suo percorso di contiguità e di familiarità con la morte. E questo per l’uomo è incomprensibile. Anzi, quel che non può comprendere è che tale familiarità ha un suo linguaggio sensuale. Direi che si possono rintracciare i segni di tale predisposizione, nella mistica, e solo nella mistica femminile.
Sono le donne le sacerdotesse di questa apparentemente assurda compenetrazione. Esse, che sono tutta natura, hanno una familiarità con il sangue (non quello vivo della battaglia, ma quello morto del mestruo o quello espulso del parto); esse che sono portatrici della matrice che impasta la vita nel liquido, sanno dare ordine alla dimensione fenomenologica della morte, senza trarne immediatamente una nevrosi esistenziale. Si può dire che il loro essere – come direbbe Michelet – ultra sesso permette loro di non avere paura della morte? E d’altra parte non sta forse nel loro essere religione – senza un’immediata trascendenza – la loro capacità di addomesticare la morte e di collocarla nell’ampio – forse totalizzante in loro – spazio della sensualità? Quel che per l’uomo è incomprensibile, per la donna è naturale. Lo stesso maneggiamento del corpo morto – una volta pertinenza del femminile – dice di una familiarità e naturalezza con il morire. Loro possono. Perché in loro la morte è insita nell’atto generativo, già l’hanno conosciuta nell’innaturale mutilazione.
No, la donna non ha paura dell’assurda nudità della morte. Qui sta la grande differenza tra il maschio e la femmina.
Maschio e femmina Dio li ha creati. E dopo il peccato, essi scoprono la problematicità delle loro corporeità. Il fardello che ad essi viene affidato è (non saprei dire se equamente) suddiviso: il sudore prodotto dal lavoro per Adamo e il dolore del parto per Eva. Questa sorta di software esistenziale è giunto fino alle soglie della modernità senza obiezioni. Era la cifra della nostra differente umanità. Ma la pena più grave, insopportabile per Adamo ed Eva, è la divisione dei loro destini. Non solo vengono allontanati dal Paradiso Terrestre, ma vengono reciprocamente allontanati. La loro ricongiunzione, seppure parziale su questa terra, provoca dolore ed è solo apparente, breve, instabile. Se per l’uomo la morte è questione di mancanza, per la donna è questione di attesa. Due dimensioni che mai potranno amalgamarsi perfettamente e che generano una sostanziale incomunicabilità antropologica.
La dimensione sensuale del proprio morire sta nella donna dunque nell’attesa del ricongiungimento, l’altra faccia della medaglia della separazione. E’ l’essenza della dimensione religiosa della donna, sempre in attesa di potersi legare alla trascendenza priva di linguaggi tipica dell’uomo. Ricongiungimento – si potrebbe dire – in una perfetta dimensione coniugale.
Con la morte, dunque, la madre genera di nuovo. “Mia madre è morta quando io non avevo ancora quindici anni. Feci delle poesie per onorarla, ciò che mai equivale a piangere, e nel dolore, fui sempre accompagnato dal sentimento che da quel momento doveva iniziarsi per me una vita seria e di lavoro” (Italo Svevo, La coscienza di Zeno). Ma in questo caso essa genera il proprio figlio non più alla vita, ma alla morte: “La morte del padre, per un uomo, non ha importanza. Il figlio continua a vivere come prima, dopo la morte del padre. Ma la morte della madre è diversa. Con la madre, muore il mondo da cui il figlio è nato. Un uomo, comincia a morire dopo la morte di sua madre, non prima” (Malaparte, Mamma marcia). E’ in questo momento forse che un uomo “capisce” la vera natura del femminile.