Scorre sui teleschermi in questi giorni una pubblicità televisiva di un servizio per entrare in internet. Racconta di un figlio sballottato come un pacco da un genitore all’altro che con entrambi ha l’unico rapporto di stare in silenzio davanti alla tv. I due genitori separati sono sorridenti (loro già possiedono il prodotto X pubblicizzato) e il figlio è evidentemente a disagio, ma gli passa subito con l’arrivo miracoloso del prodotto X.
Che dire di fronte a rappresentazioni idilliache di situazioni complesse, dure e dolorose come una separazione? E di fronte al prodotto X che appare miracoloso e rende automaticamente felici? Il messaggio che passa è “se non compri X e non ti basta a consolarti dei guai familiari, è colpa tua!” e che “per consolare tuo figlio basta il prodotto X!”. “Ecco la felicità che ti vendono in tv” diceva triste Miguelito, il personaggio nato dalla penna del disegnatore Quino, al momento della disillusione dopo l’acquisto del giocattolo che in tv pareva mirabolante.
La responsabilità di chi fa pubblicità è grande. Grandissima. E – poche le eccezioni – giornali e tv sono oggi solo portatori di pubblicità: le notizie servono a sostenere la pubblicità, mentre un tempo era il contrario. Ricordiamo Carosello (soppresso): all’interno dello spot ben distingueva l’intrattenimento offerto (i primi 3 minuti), dal messaggio pubblicitario (30 secondi finali). Era un’epoca in cui la pubblicità necessaria per sostenere un giornale era chiara e limitata; oggi in certi giornali non capisci dove finisce la pubblicità, e tra le pubblicità… trovi se hai fortuna qualche notizia.
Ma oggi ci sono ancora regole pubblicitarie? Forse sì. Si legge nel Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, 67ª edizione, in vigore dal 10 marzo 2020: “La comunicazione commerciale deve sempre essere riconoscibile come tale. Nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”. Già. C’è la regola di esplicitare quando una trasmissione è pubblicità? Bene, lo scriviamo in piccolo e nei secondi iniziali (anche fosse scritto in grande, i bambini sanno leggere?). C’è la regola di separare la pubblicità dal programma di intrattenimento? Bene, scriviamo in piccolo all’inizio che il programma “contiene prodotti reclamizzati” e poi siamo liberi di mostrare prodotti e marchi.
Leggiamo ancora nel Codice di autoregolamentazione del 2020: “La comunicazione commerciale non deve contenere un’esortazione diretta ai bambini affinché acquistino o sollecitino altre persone ad acquistare il prodotto pubblicizzato”. Ma se gli spot pubblicitari sono più belli e più accattivanti della maggior parte delle trasmissioni per bambini.
La pubblicità nacque all’inizio del secolo scorso, e il futurismo se ne impossessò come segnale di avanguardia del futuro dominio delle macchine e del rumore sul mondo brulicante di guerre, in cui vale la pena di citare Fortunato Depero, che nel 1931 pubblica il “Manifesto dell’arte pubblicitaria futurista”. Secondo Depero, l’immagine pubblicitaria doveva essere veloce, sintetica, fascinatrice, con grandi campiture di colore a tinte piatte, per così poter aumentare la dinamicità della comunicazione. Il mondo-macchina, preludio all’uomo-macchina desiderato dagli industriali e temuto dai filosofi, come ben scriveva Gunther Anders.
La pubblicità è l’ancella della tecnica, assieme alla moda; e di moda e pubblicità si nutrono i nostri figli, e anche noi che ci crediamo “superiori” ne beviamo a litri senza accorgercene, perché i pubblicitari sono bravi: intere agenzie vivono per influenzarci e portarci a comprare cose inutili.
“Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma” (Frederic Breidberg. Lire 26.900).
Peggio ancora la pubblicità su internet, del tutto deregolata, nonostante blandi e sommari accenni a regole, fatta di banner o finestre che si aprono mentre leggi e mentre vorresti informarti e devi impazzire per liberartene e nel frattempo hanno ottenuto il loro scopo: farsi vedere, dando il fastidio che dà una mosca o una zanzara, influenzandoci inconsciamente, facendosi ricordare: più sono fastidiose più si fanno ricordare. E i nostri millennial crescono imparando a non imparare la concentrazione, indulgendo nel farsi interrompere perché per loro il mondo è così: film e pagine web inframmezzati, alterati, spezzettati, polverizzati dalla pubblicità: sinfonie interrotte dagli advertisement.
Dice: sì, ma così li vedi gratis. Ma davvero pensiamo che vedere un concerto a pezzetti sia assistere a un concerto? Anni fa i soliti intellettuali si stracciavano le vesti contro la tv che interrompeva a metà i film (“non si interrompe un sogno!” era il loro slogan), poi tutto è stato silenziato. Molti hanno gettato la spugna: la pubblicità, che era il demonio, è forse diventata forte, inevitabile, necessaria, e poi ancora, buona, bella, rilassante…?
Insomma, la pubblicità è il nostro pane quotidiano, la nostra aria, la nostra fonte di ispirazione (conosciamo più i gingle degli spot che le arie d’opera) e il modo di fare cultura. I messaggi politici o culturali ormai viaggiano sulle ali degli spot, sia in senso conservatore che in senso progressista: hanno ben capito gli operatori politici che lo spot e non il telegiornale è il modo di far passare il loro pensiero.
È per questo che nessuno fa rispettare davvero le regole e nessuno ne chiede di più stringenti: perché la pubblicità fa gola e fa comodo a tutti: a chi comanda, a chi contesta, a chi vende, a chi vuole imporre modelli fisici, culturali, mentali.
Considerate, ad esempio, che in pubblicità tutti sono belli, i bambini sono sani e non esistono malati, nessuno ha problemi di accoglienza, soldi, lavoro: capite bene che indottrinamento viene fuori, che senso di frustrazione e imitazione ne deriva, che desideri inesistenti vengano titillati, che ansia da prestazione ne viene. E anche quando vengono artatamente rappresentate certe minoranze, ci sono e sono pervasive solo perché è il loro turno di essere di moda: nel ’68 centro delle pubblicità erano i giovani contestatari, oggi la mira dei pubblicitari si è spostata sulle minoranze “del momento” in barba alle altre.
Un mare di notizie e intrattenimento era l’informazione, con delle isole di pubblicità per sostentarsi; oggi è un mare di pubblicità con delle isole di informazione e intrattenimento per invogliare a guardarla. Che questo spezzettamento sia dissonante con lo sviluppo mentale, che crei ansia e iperattività, non interessa. Che poi questo modo di fare la pubblicità leda i diritti dei consumatori, i diritti dei bambini, pare non interessi a nessuno. E ha dietro giri di milioni di dollari. Certo, ci sono eccezioni, c’è anche pubblicità fatta per informare; ma quanta?
Difendersi? Forse si può partire da tre punti, da ricordare e ridirsi, e da passare agli amici come avvertimento. Primo, la pubblicità non è fatta per favorire voi, ma per favorire chi vende. Secondo, useranno tutti i mezzi per farvi venire delle voglie e desideri che nemmeno vi sfioravano il cervello e farvi sembrare che sia farina del vostro sacco. Terzo, la pubblicità fa cultura coi modelli umani e sociali che impone più di Tg e conferenze e a questo fine è usata, in un’alleanza strabiliante tra mercato e politica.
Chi la pratica fa bene il suo mestiere; potremmo parlare di “banalità del vuoto”, perché in realtà è il vuoto che ci vendono, e vendendoci il vuoto riempiono di vuoto (nichilismo pratico, anche se condannato a parole) le giornate e i desideri di molti.